Se nella cornice istituzionale di un Festival del Cinema l’alleggerimento comico è garantito da concorrenti alla stregua del francese La ritournelle, viene quasi da smorzare l’acredine nei confronti di pastrocchi pseudo-autoriali come la pellicola di chiusura di ieri: la quarta fatica di Marc Fitoussi è una scialba commediola turistica di scarsissimo spessore che vorrebbe proporsi spregiudicatamente come un elogio delle virtù benefiche della tresca, ma i risultati, quando non risaputi, mettono comunque una certa tristezza.

Non si capisce perché si dovrebbero prendere in simpatia i patetici capricci sentimentali dell’allevatrice di bovini Brigitte – una Isabelle Huppert ancora una volta vittima del proprio autolesionismo, perennemente “colbaccata” come la Lara del Dottor Zhivago e decisamente poco credibile nel ruolo di provinciale contadinotta -, infatuata prima di una sottospecie di tronista cannettaro che fa il poser leggendo Calvino e poi di un maturo odontoiatra scandinavo (Michael Nyqvist, il Blomqvist della trilogia di Millennium) che le faranno scoprire le gioie dell’infedeltà in una Parigi banalmente cartolinesca mentre il marito Xavier (Jean-Pierre Darroussin, l’indimenticabile ispettore Monet di Miracolo a Le Havre) la pensa in viaggio per una visita dermatologica. Troppo raffrenato e spento per trasformarsi in pochade e troppo frivolo e superficiale per meditare sulle derive senili del matrimonio (quanto accade, invece, nel riuscito Le Weekend di Roger Michell), La ritournelle è un’Anna Karenina all’acqua di rose che procede per episodi svenevoli ed equivoci puerili, rassicurante e levigato come un tv movie per le pigre serate estive, un racconto facilone e scontato che, malgrado la bella alchimia fra la Huppert e Darroussin, non va da nessuna parte e che, specie quando cerca di prendersi sul serio, sortisce effetti ancora più imbarazzanti.

Come accaduto l’anno scorso per i similmente approssimativi e, almeno sulla carta, brillanti Matterhorn e Spaghetti Story, il duttile pubblico moscovita, come da programma, ha gradito non poco.

Forse non perfettamente a fuoco ma assai più interessante è il partecipante giapponese del concorso, il melodramma erotico Watashi no otoko (Il mio uomo), che è contemporaneamente una variazione tutt’altro che logora sulla poetica del consanguineo tanto ricorrente nella cinematografia dell’Estremo Oriente quanto una sorta di versione degenerata del Lolita nabokoviano.
Personaggio principale è la teenager Hana, rimasta orfana in tenerissima età in seguito a un apocalittico tsunami e presa in custodia dal lontano parente Jungo (il divo nipponico Tadanobu Asano), che se ne affezionerà al punto da non impedire e anzi da incoraggiare l’insorgere della loro reciproca, ossessiva attrazione carnale, suscitando lo scandalo della comunità che li crede padre e figlia: il carattere incestuoso della relazione, di per sé inesistente, si rivelerà essere il motore e non il freno dei sentimenti della ragazza, che scemeranno soltanto quando l’illusione del legame filiale non avrà più ragione di esistere.

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Il quarantenne Kazuyoshi Kumakiri adatta un romanzo della prolifica Kazuki Sakuraba rischiando moltissimo e non lasciandosi spaventare dal turbine irresistibile dell’amour fou, calcando probabilmente un po’ tanto la mano solamente nei momenti maggiormente visionari (la perdita della verginità, consumata in una stanza che, simbolicamente, si ritrova immersa nel sangue), ma tenendosi sempre a due passi dal compiacimento e dal cinismo. Grande rilievo hanno gli ambienti, dicotomicamente divisi fra il gelido inverno di Hokkaido (indimenticabile e lancinante la sequenza sui banchi di ghiaccio alla deriva) e la torrida estate di una irriconoscibile, lurida Tokyo, e altrettanto decisivo è l’apporto musicale dell’americano Jim O’Rourke, ex-chitarrista dei Gastr del Sol e figura fra le più essenziali del genere post-rock, ma a stagliarsi su tutto è l’imprescindibile contributo dei due straordinari protagonisti, in particolare l’emergente, intensissima Fumi Nikaidô, già premio Mastroianni a Venezia69 per Himizu e attualmente in pole position per il premio per la migliore interpretazione femminile.

Il pomeriggio è interamente dedicato agli ultimi campioni del Filmpalast, nell’ordine l’orientale Black Coal, Thin Ice (Orso d’Oro) e il francese Aimer, boire et chanter (Orso d’Argento – Premio Alfred Bauer): il primo è un avvincente e cupissimo poliziesco metropolitano che, un anno dopo l’eccellente Il tocco del peccato di Jia Zhangke (Prix du scénario a Cannes 66), rispecchia alla perfezione il clima di cambiamento e di “tonificazione” del cinema cinese di genere.

Non serve aver letto Chandler o conoscere a menadito la storia del noir per intuire gli sviluppi, non proprio originalissimi, di un caso che ha a che fare con una serie sospetta di omicidi e di occultamenti di cadaveri, e quasi sorge il sospetto che, girato in Occidente, un film così non avrebbe sollevato il medesimo entusiasmo.
Determinante e assolutamente inconsueto è invece l’approccio adottato da Yinan, soprattutto nella parte centrale, colma di ellissi e di silenzi, dove si avverte il timbro della produttrice Vivian Qu (al Lido l’anno scorso con il suggestivo thriller Trap Street, suo esordio alla regia), un metodo che, sullo sfondo dell’indagine, lascia percepire tutte le contraddizioni e i patimenti di un Paese allo sbando che ha perso le proprie certezze e che vede il Male propagarsi sin nei suoi basici elementi (il carbone e il ghiaccio del titolo). A tratti spiazzante – a cominciare dalla sparatoria nel salone, il colpo di scena più imprevedibile -, Black Coal, Thin Ice è un invidiabile compromesso fra autorialità e commercialità, un esperimento accattivante che dovrebbe fungere da esempio su come unire la semantica dell’industria filmica di consumo con la grammatica di quello d’essai.

Black Coal, Thin Ice
Black Coal, Thin Ice

L’identità del secondo film sta già tutta nel premio attribuitogli dalla giuria del Festival di Berlino: che sia stato l’allora 91enne regista Alain Resnais ad aggiudicarsi il riconoscimento per l’opera “che meglio di tutte si affaccia sulle nuove frontiere dell’espressione cinematografica” la dice lunga sulla modernità di linguaggio, sulla freschezza della fattura e sul gusto immarcescibilmente avveniristico dell’immenso papà della Nouvelle Vague recentemente scomparso, che nei 55 anni della sua carriera nel lungometraggio, da Hiroshima mon amour in poi, è sempre stato in grado di precorrere le più cruciali innovazioni dell’arte di mettere in scena.

Resnais, dopo il dittico Smoking/No Smoking e il successo di Cuori, usa come pretesto un’altra pièce del londinese Alan Ayckbourn, e si circonda per l’ultima volta dei suoi attori-feticcio, l’immancabile André Dussolier e la moglie-musa Sabine Azéma, per imbastire una considerazione teorica sulla rappresentazione e una riflessione intima sulla morte che per certi versi incarna il volto più farsesco e meno cerebrale del precedente – e inspiegabilmente ancora inedito – Vous n’avez encore rien vu, un cinema fatto di segni elementari eppure disorientanti come la prospettiva in grandissima parte frontale tipica del palcoscenico, la natura smaccatamente fasulla delle scenografie, che esaspera l’origine teatrale del testo, i monologhi ripresi in primo piano su background retinato che spezzano violentemente l’azione e così via.

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Life of Riley è la storia del protagonista in absentia ed è con lacerante commozione che, alla fine, assistiamo al suo ironicamente puntualissimo funerale. Resnais è deceduto neanche due settimane dalla conclusione della Berlinale e con questo film sembra averci inconsciamente salutato, con un macabro senso dell’ironia, attraverso l’immagine sarcastica di un teschio sorridente, effigie imperitura di chi, dai tormenti dell’esistenza, ha saputo cogliere costantemente il lato più gioioso e vivace.

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