Con l’inizio della settimana, il 36° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca affronta il giro di boa con una giornata interamente dedicata al concorso e fuor di dubbio decisiva per l’assegnazione dei premi: si comincia con un’altra produzione non-fiction proveniente da Tel Aviv, il controverso The Green Prince (presentato in anteprima al Sundance 2014), intervista parallela che trova coinvolti l’ex agente dei servizi segreti Gonen Ben-Itzhak e il “figlio di Hamas” Mosab Hassan Yousef, due pedine opposte e inconciliabili del conflitto mediorientale che si troveranno a convergere e addirittura a solidarizzare dal momento che il secondo deciderà di cooperare con lo Shin Bet e di denunciare le frange più estreme del terrorismo islamico.
La prospettiva del regista Nadav Schirman, per quanto si sforzi di mantenersi neutrale, finisce inevitabilmente per sbilanciarsi a favore delle strategie politiche del suo Paese, con un’ambiguità non dissimile a quella dell’affine The Gatekeepers (visto a Mosca, fuori competizione, lo scorso anno) e, per quanto alla fine corra pure i suoi rischi, sceglie di rimanere spesso in superficie (cosa spinge Mosab a tradire patria, fede e famiglia, specie dopo reiterati arresti e rappresaglie, per schierarsi coi suoi nemici giurati?) e di spettacolarizzare inutilmente l’insieme, ricorrendo ad un sincopato montaggio di scene che, sorge il sospetto, siano state girate ex novo.
Restano comunque un toccante, ancorché evidentemente drammatizzato, spirito da tragedia greca (il padre di Mosab è uno dei più noti esponenti di Hamas) ed un uso sapiente dell’Interrotron di Errol Morris, dispositivo che consente agli interpellati di rivolgere direttamente lo sguardo in camera e di stabilire un contatto visivo con lo spettatore, espediente che non potrebbe essere più appropriato e calzante, considerando che si ha a che fare con due bugiardi di professione.
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Non usciamo dai confini nazionali per incontrare la prima opera di finzione di oggi, il dramma coniugale Hafsakat esh (Cessate il fuoco), che vede i giovani sposi Moti e Keren, sfollati della Seconda Guerra del Libano, trovare rifugio nell’appartamento dei più maturi e borghesi Boaz e Yali, con tutte le complicazioni e le tensioni del caso: la prima è una coppia ortodossa che nega, soprattutto il marito, ogni forma di compromesso con Hezbollah e che ha un bambino in dirittura d’arrivo, il secondo è un nucleo familiare più in là con gli anni, con posizioni più tolleranti e segnato tristemente dalla sterilità della moglie.
Amikam Kovner, esordiente, rappresenta con grande delicatezza uno scontro non solo ideologico e antropologico, ma anche generazionale e, pur senza aggiungere niente di particolarmente nuovo al ritratto della società israeliana e alle sue contraddizioni, delinea un duello visceralissimo che, per fortuna, non scade mai nel gioco al massacro e che non dimentica l’umanità dei suoi personaggi, incarnati da un provetto poker attoriale che per certi versi riporta alla mente quello dell’iraniano Una separazione e che riproduce senza falsità quattro modi di vivere in cui ognuno ha i propri torti e le proprie ragioni.
I missili e gli attentati rimangono sullo sfondo, ma sono evocati costantemente – e forse con fin troppa fretta, visto pure l’irrisorio minutaggio – dalle ostilità, dalle tregue e dai reciproci tentativi di comprensione di un aggregato sociale transitorio e vacillante quanto la realtà che lo ospita, ripresa con asciuttezza documentaristica in gran parte fra le mura sempre più strette di un comune appartamento.
Non sarà nulla di trascendentale, ma di fronte alle forzature di genere dei giorni precedenti, il kammerspiel di Kovner è una salutare boccata di aria fresca.
Aleggiava moltissima curiosità nei confronti del successivo film della selezione, la fiaba fantascientifica africana Beti and Amare, storia d’amore interplanetaria ambientata ai tempi della Campagna d’Etiopia, ma c’è proprio poco da salvare in un progetto accattivante sulla carta ma deludente negli esiti: non è mai chiara, né davvero urgente, la natura dello stravagante rapporto fra i due protagonisti, minacciati tanto da un terzetto di torvi guerriglieri locali con il piglio da gangster quanto da un soldato italiano che si aggira per la pianura sfoggiando una maschera alla Leatherface e accompagnato dalle canzonette di Bixio, e a mano a mano che si procede con le vicende si sprofonda nel ridicolo più o meno volontario (Amare si presenta come una specie di ibrido fra alieno e vampiro, l’acuirsi conclusivo della violenza sortisce effetti abbastanza comici e l’accostamento bulimico di bizzarrie (armi sfolgoranti che paiono uscite da una puntata di Goldrake, resurrezioni, piogge di asteroidi e via discorrendo), più che incuriosire e dare vita a una fantasia acronica ricordano tristemente le pantomime dello strambo universo di Davide Manuli. Insomma, un vero peccato.
Lungamente atteso, in serata è arrivato finalmente il primo titolo assolutamente irrinunciabile della sezione principale, il turco Gözümün Nûru (Eye Am), un gioiello che non soltanto nobilita il non proprio esaltante livello del concorso, ma che è a tutti gli effetti un piccolo capolavoro nascosto nel bagaglio est-europeo di questo decennio che si candida con ogni probabilità alla vittoria finale.
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Firmato in tandem dai poco più che trentenni Hakki Kurtulus e Melik Saracoglu, il film è sostanzialmente il diario di convalescenza di quest’ultimo, entusiasta studente di cinema presso l’Institut Lumière di Lione, in seguito a una serie di rischiosi interventi per il distacco della retina del suo unico occhio sano: rimpatriato per seguire la spossante terapia, Saracoglu sarà costretto a quaranta giorni di pressoché totali cecità e di immobilità, circondato dall’affetto dei suoi cari e isolato in un limbo sensoriale popolato da incubi, visioni, rimpianti e ricordi.
I due cineasti, alla terza fatica insieme, optano per un approccio giocoso e a tratti anarchico, astratto e vivace che sembra venire dritto dalla Nouvelle Vague – Godard è frequentemente tirato in ballo – e dal surrealismo (la citazione parodistica del taglio oculare di Un chien andalou), ricchissimo di invenzioni visive, dalle pesanti sfocature alle soggettive inusuali, culminando con l’indimenticabile, lunga e progressiva riduzione di porzione visibile di immagine alla vigilia della prima operazione, scelte registiche sulla scia dello sperimentalismo de Lo scafandro e la farfalla, ed attraversato da un pudore e da un senso dell’umorismo che stemperano l’insorgere del dramma degno de La guerra è dichiarata (esilarante la sequenza onirica nella quale Malik si confronta con sprezzanti addetti ai lavori dell’industria cinematografica).
Il risultato è uno straordinario, emozionantissimo giro sulle montagne russe dell’espressione filmica, un viaggio che stimola l’occhio e la mente senza alcun cedimento per tutti i suoi 75′ di durata, un appassionato inno al cinema come infinita fonte di sogni e di luce – parola la cui traduzione in francese è, in fin dei conti, come viene fatto notare, proprio lumière – e che conferma, dopo l’Orso d’Oro di Bal, il San Giorgio d’Oro di Zerre, e la recentissima Palma d’Oro di Winter Sleep, l’assoluto stato di grazia raggiunto dal moderno cinema di Istanbul.
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