La sezione competitiva riservata ai documentari schiera oggi il suo unico concorrente di casa, il brevissimo Cardiopolitika, incentrato sulla figura pubblica e professionale del medico Sergei Sukhanov, luminare della chirurgia a cuore aperto ritrovatosi all’alba delle ultime elezioni presidenziali russe ad appoggiare con convinzione la terza candidatura di Vladimir Putin alla guida del Paese: l’indagine della regista Svetlana Strelnikova si preoccupa di illustrare le piccole e grandi contraddizioni del suo soggetto (salutista e accanito fumatore, patrizio e sboccato come un camionista) e la sua inesorabile discesa nel compromesso, da professionista fiero della propria indipendenza ma escluso dai gretti meccanismi di potere a sostenitore per necessità di un sistema corrotto a lui estraneo che finalmente gli permetterà di accedere a fondi e possibilità altrimenti impossibili.

La Strelnikova cattura la realtà ospedaliera con distacco wisemaniano, fotografandone i momenti più ordinari – dalla procedure burocratiche agli appuntamenti con i pazienti, fino ai meeting di partito – e mantenendo Sukhanov sotto una luce ambigua da Faust della nostra epoca. Il risultato è controverso e tutt’altro che accondiscendente, girato con gusto e asciuttezza, ma è un vero peccato che il discorso arrivi alla conclusione dopo appena sessanta minuti quando si sarebbe potuta raggiungere comodamente l’usuale durata da lungometraggio.

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Si passa alla fiction con il greco Oi aisthimaties (The Sentimentalists), ma si commetterebbe un errore a buttare la nuova fatica di Nicholas Triandafyllidis nel calderone ribollente di quella New Wave locale impostasi con successo all’attenzione delle maggiori rassegne internazionali (si pensi ai recenti AttenbergAlpeis Miss Violence, passati tutti per il palmares delle ultime Mostre di Venezia). Il film ne ripresenta infatti soltanto gli elementi ancestrali da tragedia sofoclea rivisitata ai tempi della crisi, inserendoli in un contesto da crime movie a base di temibili e aristocratici boss della mala, spietatissimi sicari e puttane dal cuore d’oro, traslando motivi e vezzi del Tarantino degli albori. Le coppie di protagonisti maschili e femminili sono uno sdoppiamento rispettivamente del Vincent Vega e della Mia Wallace di Pulp Fiction, i piedi sono un leitmotiv inquadrato con insistita generosità, laddove si tirava in ballo Ezechiele qui ricorre un passo dell’Ecclesiaste, e via discorrendo, immergendo nella cultura classica e nell’austero ciò che in Tarantino è invece impregnato di riferimenti pop e nel grottesco.

Triandafyllidis gira con mano elegante e con uno stile che ricorda a tratti il Sorrentino più tecnico, quindi senza l’appesantimento della penna di Contarello, servito da movimenti di macchina fluidissimi col dolly a farla da padrone e accompagnato da una colonna sonora scatenata fra Wagner e canzonette assortite.
L’esito spiazza e non ha paura di correre i rischi dell’identità di genere, azzecca molte caratterizzazioni e non si tira indietro di fronte agli sviluppi da mèlo noir del finale, che riporta alla mente l’etica dei criminali di Melville, e, anche se non si tratta per certo di un prodotto per tutti i gusti, rappresenta un bel tentativo del concorso da uscire dai binari del canonico e del risaputo.

Il piacere non si ripete, purtroppo, per il partecipante iraniano, il mediocre Anar Haye Naras (Melograni immaturi), drammetto sottoproletario lontanissimo dalla tradizione di eccellenza del cinema festivaliero proveniente da Teheran: le sofferenze della domestica Ensi, travolta da un incidente che ha ridotto il marito in stato comatoso, sono messe in atto con un tono lamentoso, lacrimoso e artefatto da sceneggiata matarazziana, con personaggi ciarlieri che esprimono didascalicamente i loro sentimenti, i loro pensieri e i loro stati d’animo con insopportabile petulenza e senza lasciare nulla alla sensibilità dello spettatore, insistendo su simbologie desuete (la cicogna), sottotrame parallele ridondanti – Ensi si occupa di una donna anziana in procinto di essere trasferita in un ospizio – e colpi di teatro da ABC della drammaturgia (indovinate cosa accade alla nostra eroina alla fine, dopo quasi dieci anni di infertilità?).
Non aiuta, poi, la protagonista Anna Ne’mati, una specie di equivalente mediorientale della Manuelona Arcuri nazionale, che si aggira di scena in scena con lo stesso broncio da filodrammatica e gli stessi tic da diva del piccolo schermo reclamando a gran voce il Premio per la Migliore Attrice.

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Si ritorna sulla Croisette per l’ultima pellicola della giornata, il nuovo racconto di militanza del buon vecchio Ken Loach, l’agrodolce Jimmy’s Hall: l’autore di Riff Raff ritorna all’ambito storico-politico del suo Il vento che accarezza l’erba, ed è ancora una volta curioso notare quanto nella sua produzione l’attenzione alla cura formale si traduca sempre in una minore riuscita sotto il profilo della scrittura e della profondità. Incorniciato dall’espressiva fotografia di Robbie Ryan (presenza fissa, e in un certo senso valore aggiunto della filmografia di Andrea Arnold e Osella per il Contributo Tecnico a Venezia per Wuthering Heights), arricchisce la programmatica trascuratezza delle sue immagini a scapito dell’anima stessa della storia: pur dando il titolo all’opera, la sala allestita dall’attivista irlandese Jimmy Gralton per ospitare le attività pedagogico-intrattenitive della sua comunità non entra mai nel vivo delle vicende e stenta ad assurgere allo status di personaggio e gli scontri ideologici fra classe operaia e oppressori di turno – qui sono i proprietari terrieri e la Chiesa Cattolica – ormai procedono col pilota automatico, senza sorprese né innovazioni.

Certo, la spavalderia irredentista del veterano mangiapreti ha sempre il suo fascino e riesce in ogni caso ad appassionare (decisamente indimenticabili le sequenze della presentazione del grammofono e del corteo in bicicletta che “scorta” Jimmy prima della partenza per l’esilio), il misero universo che lotta per i propri diritti pulsa di ruspante autenticità e di vita vera, ma dopo quarant’anni abbondanti di carriera sarebbe lecito aspettarsi da Loach qualcosa di più, e si prova un po’ di nostalgia nei confronti delle sue opere più minimaliste e palpitanti.

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