E’ una combinazione decisamente curiosa quella che porta il programma del 36° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca a schierare nella stessa mattinata due concorrenti diametralmente opposti che rappresentano quanto di peggio inserito finora in competizione: da una parte abbiamo Da i da, secondo lungometraggio del fenomeno locale Valeriya Gay Germanika, un esasperante guazzabuglio para-autoriale ambientato fra sgarrupate e sordide comunità di artistoidi vaneggianti e intossicati 24 ore su 24, un mosaico allucinato e delirante da cui si eleva la relazione vagamente bohèmien fra il pittore alcolizzato Kolya e la maestra di scuola tabagista Sasha.
Il tono generale si assesta ben presto in un compiaciuto, gratuito e francamente inesplicabile diario di ordinario sconquasso, filmato da una macchina a mano mobilissima che indugia per interminabili inquadrature sul nulla, arricchito da trucchetti inutili e, alla lunga, molesti (nauseante, in particolare, l’uso a rotazione pressoché ininterrotta dei filtrini colorati), orientato verso modelli irraggiungibili, dall’autodistruzione sentimentale di Leos Carax al surrealismo quotidiano, per ammissione della stessa regista, della Amélie di Jeunet, intervallato da squarci estetizzanti scriteriati e inopinati – da antologia del trash la sequenza di Sasha che scopre lo slancio della pittura cicchettando e spippettando a ciclo continuo, ma anche l’estemporaneo videoclip del prefinale, a metà fra l’immaginario gothic-metal dei Nightwish e il prologo di Melancholia, merita una menzione – e attraversato da un maledettismo d’accatto che fa solo cadere le braccia.
La Germanika ha dichiarato in conferenza stampa che l’insistenza del produttore Fedor Bondarchuk è stato l’unica ragione della presentazione al concorso del suo progetto, che – sempre per citare le sue parole – avrebbe invece realizzato solo per una ristrettissima cerchia di amici: ammesso che si voglia dar credito alla sua spudorata faccia di bronzo, c’era davvero da sperare che tutto andasse secondo i suoi piani.
Come se non fosse bastato il malriuscito La ritournelle, si riapproda sulle sponde rasserenanti e nazionalpopolari della commedia con il tedesco Alles Inklusive, ma, osservando gli agghiaccianti risultati, l’equivalente francese in confronto rifulge della profondità dei contes moraux di Rohmer. A popolare gli insostenibili 123 (centoventitré) minuti della pellicola, troviamo i più antidiluviani, ammorbanti e leziosi canoni della farsa turistica a misura di casalinga bavarese teledipendente: zitelle disperate con cagnolino al seguito, travestiti piagnucolanti – etero, per giunta – da burletta, vegliarde ninfomani e pure un po’ mignotte con un passato da (e, a giudicare dalla morale del film, in quanto) ex hippie, villaggi vacanze, ciccioni marpioni, prestanti dottorini, gag sul vomito e altre amenità.
La sessantenne Doris Dörrie aveva di certo in mente l’universo sbarazzino ed esotico di Love Is All You Need di Susanne Bier e dei suoi succedanei nell’allestire la sua galleria stantia di macchiette, ma l’esito, già mortificante quando si rimane nel brillante – da incubo la scopata geriatrica con chitarra, inimmaginabile persino in un cinepanettone -, suscita puro ribrezzo quando pretende di prendersi sul serio e di far entrare in campo la tragedia, dai reiterati flashback del suicidio della madre della drag queen Tina allo sbarco di clandestini sulle spiagge di Torremolinos, dai conflitti generazionali fra anziani libertari e giovani passatisti ai dilemmi irrisolti sull’identità sessuale.
Esagitato, sopra le righe e portato allo stremo da una durata sconsiderata, Alles Inklusive è un autentico abominio che sicuramente non giova alla reputazione del cinema comico nelle vetrine festivaliere, un ambito dal quale è giusto aspettarsi una sapida alternanza di opere d’essai e di prodotti più leggeri, a condizione, però, che si capisca la differenza fra la finezza di un feel good movie e la beceraggine di una volgare pagliacciata.
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Dopo la gradevole coproduzione franco-svedese Happiness, documentario sul recente ammodernamento tecnologico del Bhutan visto dagli occhi di un bambino di otto anni, è il turno del terzo partecipante di oggi alla categoria principale, lo svizzero Traumland, che riporta il livello della giornata quantomeno alle soglie della decenza: dilaniante Canto di Natale localizzato in una Zurigo mai così desolata e lontana dalle consuete idealizzazioni, l’esordio sul grande schermo di Petra Volpe coinvolge un nutrito stuolo di esemplari umani accomunato dal loro rapporto più o meno diretto con il mondo della prostituzione, dai coniugi quarantenni Lena e Martin (la Ursina Lardi de Il nastro bianco e il Devid Striesow de La caduta) al triste divorziato Rolf, dall’insoddisfatta assistente sociale Judith alla sfiduciata vedova Maria (una credibile e ancora bellissima Marisa Paredes in sortita alpina).
La Volpe illustra senza facili moralismi i lati oscuri di una “terra dei sogni” considerata un punto di riferimento della mercificazione legale del sesso e, pur seguendo senza novità la tradizione dell’ensemble movie, interseca i vari nuclei narrativi senza forzature né eccessi melodrammatici, trovando un’eccezionale protagonista nella balcanica Luna Zimic Mijovic – che interpreta la fragile squillo Mia, fil rouge delle varie storie – e precludendoci qualsiasi forma di simpatizzazione e di identificazione con i personaggi, tutti, nel loro piccolo, carnefici, più che vittime, l’uno dell’altro e condannati, nel migliore dei casi, a un lieto fine di ipocrisie.
Traumland, nonostante non si distingua per creatività o per fattura, ci ricorda, specie dopo la coppia di sconfortanti estremi che l’ha preceduto, il ruolo fondamentale e talvolta salvifico del cinema medio nella cornice di una rassegna, e a tratti si spera che domani questa possa concludersi senza assumersi troppi rischi in dirittura di arrivo.