In attesa dei fuochi artificiali finali e del responso della giuria, la sezione principale del 36° Festival Cinematografico Internazionale di Mosca si conclude senza infamia né lode con una coppia di concorrenti cui non bastano la considerevole suggestione e l’encomiabile ambizione per segnalarsi fra le vette della selezione.
Il coreano Joryu Ingan (The Avian Kind) parte da premesse interessanti e da una serie di intuizioni poetiche che vedono un afflitto romanziere (Kim Jung-Suk) impegnato da anni nella ricerca della moglie fino all’incontro con un’enigmatica sconosciuta (Soy) che saprà svelargli le meste circostanze e lo spiazzante traguardo della di lei fuga: gli sviluppi della sceneggiatura del regista Shin Yeon-Shick procedono su binari paralleli – l’indagine di oggi e la sparizione di ieri – che rimangono a lungo irrisolti e inconciliati, ingarbugliati da ellissi e sottacimenti che tengono vivo il mistero fino a una risoluzione di certo arrischiata e inusuale, ma che, scadendo nel bizzarro, non trova una vera giustificazione e non indaga a sufficienza nella natura dei suoi simboli (la destinazione del viaggio è una non meglio definita “setta” in grado di tramutare gli uomini in uccelli, motivo già presente nella penultima fatica di Shin, Reoshian soseol).
L’andamento improvvisamente dinamico dello scioglimento, poi, fra sparatorie, inseguimenti e doppi giochi, tradisce il clima sospeso e pittoresco della prima parte, solerte nel descrivere i dettagli fisiologico-esoterici della metamorfosi con momenti a volte seducenti (l’incontro con l’Erborista, le tecniche dolorose di estensione corporea) e con un immacolato scenario innevato a fare da appropriato teatro dell’azione, ma incapace di fornire l’elemento reale a ciò che resta soltanto un racconto fantastico troppo consapevole del proprio fascino.
Affine per atmosfera ma ben più calibrato e a fuoco è il secondo partecipante russo ed il punto d’arrivo della rassegna, il gradevole Belyj Yagel’ (White Yagel), ritratto delle tradizioni ancestrali e dell’isolamento a tratti selvaggio della tribù dei Nenci, popolo nomade localizzato a quattro passi dal Circolo Polare Artico: il sessantenne Vladimir Tumayev, insegnante di regia al VGIK di Mosca, osserva i suoi personaggi senza l’occhio clinico dell’antropologo e delinea un microuniverso folkloristico in bilico fra il calore del focolare e la tentazione della metropoli, contrappuntato da episodi e conflitti semplici e popolareschi fra matrimoni (rigorosamente combinati), battute di caccia, esodi di massa, convivi immersi nella vodka e così via.
Belyj Yagel’ inizia come una sorta di versione glaciale del kazako Tulpan (Premio Un Certain Regard a Cannes 2008) e prosegue come un elogio delle qualità elementari e spartane della vita agreste in antitesi alla corruzione e all’avidità della grande città, concentrandosi sul rapporto contrastato fra il rustico Alyosha e la più sofisticata Aniko, relazione che il trasferimento della seconda sul continente ha reso definitivamente impossibile: la confezione vanta un’indubbia eleganza, il contesto è decisamente inusuale e deliziosamente esotico e si respira un’aria sincera da documentario etnologico, ma Tumayev sembra eccessivamente preoccupato di non turbare lo spettatore e di indirizzarlo verso un messaggio tutto sommato codino e rasserenante che incoraggia a non lasciare mai la strada vecchia per la nuova e ad accontentarsi del poco che si ha. Avendo a disposizione l’attitudine conservatrice e moderata della capitale russa, non è affatto escluso che il pubblico possa dargli ragione.
“Passata la festa, gabbatu lu santu”, si dice al Sud, ed è quindi tempo, a concorso terminato, di inforcare gli occhialini e di strafogarsi di popcorn con il blockbuster ospite dell’edizione, l’atteso Transformers 4 – L’era dell’estinzione: dall’industria fracassona e machista di Michael Bay, come al solito, non ci si può aspettare nulla di diverso dalle solite tre ore di esplosioni, deliqui hi-tech e botte da orbi, ma persino per una formula già rudimentale e a misura di bambino come quella dei robottoni Hasbro, quest’ultima sortita dell’artefice di Pearl Harbor inverte la virata autoparodica del precedente Pain & Gain per rituffarsi con totale sprezzo del ridicolo nella seriosità dell’intrattenimento hollywoodiano più trito.
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Bay cerca di rivitalizzare un franchise giunto al punto di non ritorno del terzo capitolo alzando la posta a livelli tanto esagerati da rasentare il paradossale – 165, mastodontici minuti di durata in primis -, cercando per la prima volta di attirare il mercato orientale (vedi la mezz’ora conclusiva a Hong Kong, dove programmaticamente il film è stato presentato in anteprima) e sfoggiando citazioni volenterose, da Sentieri selvaggi a 2001: Odissea nello spazio, assolutamente decontestualizzate (e oltre la portata del bacino di riferimento). E se le scelte di casting fanno cadere le braccia (Mark Wahlberg inventore è credibile quanto la Tara Reid archeologa di Alone in the Dark, Kelsey Grammer – il Frasier televisivo – è un cattivone altrettanto improbabile), non basta nemmeno tessere l’elogio del lato puramente tecnologico-spettacolare, che è in fin dei conti il pretesto stesso e la giustificazione del progetto e che ha finito, dopo sette anni di bombardamenti assortiti, per desensibilizzare totalmente l’occhio e l’intelligenza della platea, con gravi ripercussioni sull’identità dell’entertainment contemporaneo.
Dopo tanto baccano, l’ospite di chiusura della serata rinvigorisce come il più indicato dei toccasana: dalla line-up di Cannes, dal cui Palmares è stato clamorosamente escluso, arriva infatti il ritorno dietro la macchina da presa dei Fratelli Dardenne, quel Deux jours, une nuit che, dopo un paio di ottime pellicole di transizione come Il matrimonio di Lorna e Il ragazzo con la bicicletta, ritrova lo stato di assoluta grazia e di compiutezza formale dei loro imprescindibili capolavori a cavallo a fra i due secoli: risultato di abbacinante, fulgida purezza, la peregrinazione suburbana dell’operaia Sandra e i suoi incontri con i colleghi che dovrebbero garantirle la permanenza sul posto di lavoro è una mini-odissea umana di insostenibile coinvolgimento, una parabola sulla solidarietà, sull’empatia e sul sacrificio raccontata con la potenza disarmante della grammatica di base dell’espressione filmica.
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Rinunciando come di consueto all’uso del primo piano, all’alternanza di campi e controcampi e a qualsiasi altra forma di “mistificazione” registica, i Dardenne catturano l’essenza del quotidiano con l’eccezionale naturalezza che contraddistingue la loro produzione dai tempi de La promesse in poi, mettendo in scena una specie di La parola ai giurati sottoproletario dell’epoca della crisi, riuscendo a trasporne la medesima tensione e il medesimo tormento nei limiti dell’ordinaria miseria della periferia, lungo un percorso, lontanissimo da ogni ostentazione calvarica, nel quale al centro di tutto rimane sempre e comunque la dignità e al termine del quale non serve un lieto fine per riconquistare il piacere di vivere.
A servizio del film, e, miracolosamente, non viceversa, Marion Cotillard è una protagonista impagabile e mimetica, coraggiosissima nel suo antidivismo a mettersi nelle mani di due già comprovati direttori di attori di estrema sensibilità – si pensi alla Émilie Dequenne di Rosetta e all’Olivier Gourmet de Il figlio (loro attore feticcio che, per la gioia degli affezionati, torna nel finale nei panni del “villain” Jean-Marc), entrambi premiati sulla Croisette – e affiancata dall’altrettanto insostituibile Fabrizio Rongione, altra figura ricorrentissima nella filmografia dei due cineasti belgi, con cui dà vita ad una delle storie d’amore più trascinanti e autentiche del cinema recente.
Deux jours, une nuit è, in buona sostanza, un minuscolo prodigio che restituisce alla Settima Arte la sua trasparenza e la sua urgenza, un’ora e mezza che, pur riportandoci anche duramente alla realtà fuori dalla sala, ci ricorda ancora una volta le proprietà salvifiche ed entusiasmanti del grande schermo.
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