Puntuale come la carestia, arriva anche quest’estate ad abbattersi sulle sale la consueta, sconcertante pioggia di fondi di magazzino avvolta nelle ragnatele, di ciofeche per il mercato home video in evidente disagio sul grande schermo e di intrugli fanta-horrorifici per platee di bocca decisamente buona.
Avrà quindi una concorrenza pari allo zero l’unico appuntamento di vago interesse – nel bene e, soprattutto, nel male – di un ennesimo luglio letargico, un Golia di maggiorazioni 3D e di abboffate di popcorn in una valle di Elah ancor più vuota del solito distribuito quest’anno con il titolo Transformers 4 – L’era dell’estinzione, unico segno di distinzione, insieme alla defezione del seccante protagonista Shia LaBeouf, di una saga (e forse anche di un genere) ormai fatta di stampini e di carta carbone: dall’industria fracassona e machista di Michael Bay, come al solito, non ci si può aspettare nulla di diverso dalle solite tre ore di esplosioni, deliqui hi-tech e botte da orbi, ma persino per una formula già rudimentale e a misura di bambino come quella dei robottoni Hasbro, quest’ultima sortita dell’artefice di Pearl Harbor inverte la virata autoparodica del precedente Pain & Gain – Muscoli e denaro per rituffarsi, con totale sprezzo del ridicolo, nella seriosità dell’intrattenimento hollywoodiano più trito, fra linee di dialogo che gridano vendetta al cielo.
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Una su tutte, la frase di congedo di Optimus Prime che non sveliamo ma anche il ricorrente “missile in salotto” che rimarrà negli annali, tra caratteristi di vaglia tenuti svegli esclusivamente dal pensiero del proprio generoso cachet (in particolare il povero Stanley Tucci, che sfoggiando occhiali da tamarro e barba di tre giorni cerca di colmare il vuoto lasciato da John Turturro), personaggi che non si limitano ad essere di prevedibile carta velina, ma che non si sforzano nemmeno di apparire simpatici e uno script, firmato dal fedele Ehren Kruger (di cui attendiamo con terrore l’annunciata versione in live-action di Dumbo) che proprio non sa come colmare e giustificare lo spazio vuoto fra un boato e l’altro altresì conosciuto come intreccio.
Bay cerca di rivitalizzare un franchise giunto al punto di non ritorno del terzo capitolo alzando la posta a livelli tanto esagerati da rasentare il paradossale – 165, mastodontici minuti di durata in primis -, cercando per la prima volta di attirare il mercato orientale (vedi la mezz’ora conclusiva a Hong Kong, dove programmaticamente il film è stato presentato in anteprima) e sfoggiando citazioni volenterose, da Sentieri selvaggi a 2001: Odissea nello spazio, assolutamente decontestualizzate (e oltre la portata del bacino di riferimento). E se le scelte di casting fanno cadere le braccia (Mark Wahlberg inventore è credibile quanto la Tara Reid archeologa di Alone in the Dark, Kelsey Grammer – il Frasier televisivo – è un cattivone altrettanto improbabile), non basta nemmeno tessere l’elogio del lato puramente tecnologico-spettacolare, che è in fin dei conti il pretesto stesso e la ragione di vita del progetto e che ha finito, dopo sette anni di bombardamenti assortiti, per desensibilizzare totalmente l’occhio e l’intelligenza dello spettatore, con gravi ripercussioni sull’identità dell’entertainment contemporaneo.
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