Le linee guida per la gestione finanziaria degli Istituti religiosi sono state delineate in una lettera circolare firmata dal cardinal Joao Braz de Aviz lo scorso 2 agosto. Una lettera che sui media non ha avuto particolare risalto, anche perché i riflettori erano tutti giustamente sulle tragedie che i cristiani stanno vivendo in Iraq, così come in molti altri Paesi nel mondo. Eppure proprio questo documento può essere considerato un ulteriore passo verso quella “riforma della carità” nella Chiesa. Una riforma che aiuta a migliorare la raccolta di risorse, mette in chiaro la necessità di avere una coerenza tra opere e missione e che alla lunga educa a un nuovo approccio sul territorio.
Mentre arrivano le notizie sempre più preoccupanti dall’Iraq, ci si dimentica di quanto accade in Siria, si mette un po’ in secondo piano quello che succede in Ucraina e si considera ormai laterale il conflitto israelo-palestinese in Terrasanta, le congregazioni religiose sono sul territorio e fanno il loro lavoro a fianco delle popolazioni. Sono presenti anche in Corea del Sud, e solo alcuni missionari coraggiosi riescono a varcare il confine del 38esimo parallelo e andare nella Corea del Nord. Sono in prima linea in Africa, dove si sta sperimentando la più grave epidemia di Virus Ebola degli ultimi quaranta anni. E sono lì a raccogliere risorse, gestire ospedali da campo, aiutare gli istituti di carità che sono presenti sul territorio.
È il principio della sussidiarietà, un cardine della Dottrina Sociale della Chiesa che diventa drammaticamente concreto nelle situazioni di crisi. I bisogni dei fedeli sono affrontati dai religiosi, che a loro volta si appoggiano alle realtà istituzionali della carità della Chiesa, le quali a loro volta si coordinano sotto l’ombrello di una visione e una istituzione comune.
Un processo naturale, in fondo, ma che necessitava di alcuni passaggi “giuridici” perché tutto fosse reso chiaro e trasparente. Nell’istituire il Pontificio Consiglio Cor Unum nel 1971, Paolo VI puntava proprio a creare nella Santa Sede un centro della carità universale. Sotto l’ombrello della sovranità della Santa Sede, la Chiesa esperta in umanità poteva coordinare sforzi e idee per aiutare i poveri nelle periferie esistenziali. Per lo stesso motivo, Paolo VI quando era ancora sostituto alla Segreteria di Stato, aveva promosso l’istituzione di Caritas Internationalis. E per lo stesso motivo, in quello stesso 1971 aveva fatto costituire la Caritas Italiana.
Per anni, le attività della carità sono state dunque gestite secondo schemi ben oliati. Raccolta di fondi, distribuzione dei beni, aiuto alle popolazioni, e denuncia forte e chiara quando venivano violati i diritti fondamentali. Poi, le cose sono diventate man mano più diplomatiche. Le charities cristiane sui territori avevano cominciato a rinunciare alla denuncia in cambio di rapporti più facili con i governi. Questo avrebbe aiutato la missione, pensavano. Lo ha fatto, in qualche modo. Ma ha creato anche la percezione che le istituzioni caritative della Chiesa fossero una mera Ong.
Papa Francesco lo dice spesso. E in fondo lui ha vissuto il problema in America Latina, dove i sacerdoti vanno sì alle periferie, ma sono anche spesso considerati alla stregua di assistenti sociali. L’attenzione per il povero è sfociato in un umanesimo senza Dio e senza annuncio della Parola. Questa è una delle cause dell’esodo di cristiani verso le sette evangeliche, ad esempio.
Benedetto XVI era consapevole del problema, e basta leggere i suoi interventi nel corso di un pontificato per rendersene conto. A più riprese, Benedetto XVI ha ammonito la Chiesa a guardarsi dall’autocompiacimento delle strutture, ha sottolineato che una Chiesa che non ha come centro Dio rischia di morire, ha persino plaudito alle ondate di secolarizzazione che in fondo hanno tolto alla Chiesa potere temporale e l’hanno fatta concentrare sulla missione.
Con questi problemi davanti agli occhi, Benedetto XVI ha avviato la sua rivoluzione tranquilla in due atti.
Il primo: la riforma degli Statuti di Caritas Internationalis. La riforma rafforzava la collaborazione tra l’istituzione e la Santa Sede, delineava con maggiore chiarezza le competenze della Segreteria di Stato e dava appunto una visione teologica di insieme, sintetizzabile con il motto: la carità nella verità.
La medesima visione che era alla base del secondo atto della rivoluzione tranquilla, il Motu Proprio “Intima Natura Ecclesiae”, con il quale Benedetto XVI intendeva fornire “un quadro normativo organico che servisse meglio ad ordinare le diverse forme ecclesiali organizzate al servizio della carità”. Il motu proprio va proprio alla radice del servizio della carità della Chiesa e che riguarda funzioni e competenze del Pontificio Consiglio Cor Unum.
Sono due atti di governo che vengono da una riflessione che Benedetto XVI aveva fatto nella sua prima enciclica, la “Deus Caritas Est”. L’allora Papa rilevava che il Codice di Diritto Canonico descrive sì in dettaglio i compiti del Vescovo nella catechesi e nella liturgia, ma è molto limitato per quanto riguarda il servizio della carità.
Ma c’è di più. In quell’enciclica, Benedetto XVI affermava che “è ormai risultato chiaro che il vero soggetto delle varie organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio di carità è la Chiesa stessa”, e sottolineava che il servizio di carità è parte essenziale della vita della Chiesa, così come la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti. Il servizio di carità è dunque una dimensione costitutiva della vita della Chiesa.
Si leggono le considerazioni di Benedetto XVI, e sembra a volte di ritrovare lo spirito di Francesco. Il quale in realtà non ha fatto altro che inserirsi nel solco del predecessore. Papa Francesco non ama l’istituzionalità, ma l’istituzione, la cornice giuridica, sono importanti: garantiscono la libertà.
È in questo solco che si inserisce la lettera circolare che contiene le linee guida per la gestione finanziaria degli Istituti religiosi. Nella lettera, è vero, ci sono aspetti molto tecnici: la necessità di un budget preventivo, la distribuzione delle risorse, la gestione dei bilanci, l’analisi del deficit, la trasparenza da raggiungere attraverso consulenti esterni (ma non ad ogni costo, e soprattutto non a costo di sperperare le finanze degli Istituti) ma soprattutto chiamando persone dall’ambito cattolico, e formandone altre all’interno degli stessi istituti.
Ed è proprio nella parte della formazione che sta il quarto atto della grande riforma della carità. Tutti sono co-responsabilizzati, e si raccomanda persino che il bilancio preventivo sia utilizzato “non solo per le opere, ma anche nelle comunità, come strumento di formazione alla dimensione economica per la crescita di una consapevolezza comune in questo ambito e di verifica del reale grado di povertà personale e comunitaria”.
È la necessità di formare professionisti interni alle stesse congregazioni. Perché “in quasi tutti gli Istituti, gli aspetti economici sono affidati ad una persona, la figura dell’Economo, cui si attribuisce un compito tecnico”. Ma questo “ha generato disinteresse nei confronti dell’Economia all’interno delle comunità, favorendo una perdita di contatto con il costo dellla vita e le fatiche gestionali e provocando, nella realtà che ci circonda, una dicotomia tra realtà e missione” .
È questa dicotomia tra realtà e missione che si vuole evitare. Religiosi con il senso della realtà sono religiosi che sul territorio aiutano ancora di più la missione della Chiesa, sanno coordinarsi con le charities, possono offrire un contributo ancora maggiore. C’è, sullo sfondo, la nozione che la gestione finanziaria non è mai per la Chiesa solo fine a se stessa. Ma c’è anche in fondo la necessità di quella riforma dei cuori che chiede Papa Francesco.
Oggi, mentre la Chiesa è in prima linea in tutte le crisi internazionali e i cristiani sono la confessione più perseguitata al mondo, questa nuova consapevolezza può forse aiutare a recuperare il senso della missione che a volte si è perso di vista in questi anni. Accanto alle opere c’è bisogno di una cornice chiara e trasparente, che non leghi in fondo la missione della Chiesa solo ad alcune contingenze personali. Lo ha capito anche Papa Francesco. Il quale ha sempre sottolineato la necessità di fare la carità, di andare nelle periferie esistenziali. L’ha messa in luce con il nuovo ruolo dato all’elemosiniere papale Konrad Krajewsi, inviato informalmente ovunque a distribuire la carità del Papa. E il mito racconta che il Papa abbia persino chiesto uno “stipendio” ovvero un portafogli personale per distribuire senza filtri denaro a chi è più bisognoso, una ipotesi fantasiosa, ma in linea con il personaggio. Ma al di là di tutto questo, ci devono essere linee guida chiare nel gestire la finanza e nel portare avanti la missione. Supportando quest’ultima circolare, Papa Francesco ha in fondo continuato la rivoluzione tranquilla di Benedetto XVI. Nello spirito di Paolo VI.
Fonte: Monday Vatican – Traduzione in italiano dell’Autore
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