L’ora della diplomazia della verità è scattata quando il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso ha diffuso una dichiarazione fortissima lo scorso 12 agosto. Per la prima volta, un dicastero vaticano metteva in una lista tutti gli orrori del Califfato, chiamava sottilmente in causa il mondo laico ricordando che era stato proprio il laicista Kemal Ataturk ad aver chiuso l’esperienza dei califfati nel 1929, e chiamava palesemente in causa i leader religiosi: che credibilità abbiamo, se non denunciamo quello che sta accadendo, che offende Dio e gli uomini?

Sullo sfondo, la drammatica situazione dei cristiani in Iraq. L’avanzata dell’esercito dello Stato Islamico verso Nord gli ha spinti verso il Kurdistan. Il primo ministro regionale del Kurdistan Barzani lo ha detto chiaramente all’inviato papale, il cardinal Fernando Filoni: “Noi abbiamo il dovere di proteggerli”. Ma poi ha aggiunto: “Sono così tanti che non abbiamo risorse né strumenti per farlo”.

Risorse e strumenti che possono arrivare solo da un forte impegno della comunità internazionale. Che è arrivato tardivo. Solo il 14 agosto le Nazioni Unite hanno elevato il livello di emergenza in Iraq al più alto grado possibile, per facilitare l’arrivo degli aiuti. Nel frattempo, le persone dormono all’aperto, gli yazidi rischiano il massacro, e i peshmerga curdi si chiedono come mai l’esercito dello Stato Islamico improvvisamente si è diretto a Nord, con una organizzazione militare di cui non aveva dato prova negli scorsi giorni.

L’Iraq è solo una parte del Medio Oriente. La situazione è critica a Gaza, le tregue si succedono in maniera stanca e i negoziati sembrano troppo lenti per far pensare ad una rapida soluzione. La Siria è una guerra ormai dimenticata. Il Libano sta vivendo giorni difficili. Poi si può andare verso l’Africa, arrivare ad osservare il califfato di Libia, passando per lo Yemen che ormai è una realtà divisa, per il Sudan che è tornato sotto i riflettori per il caso Meriem, ma che in genere va derubricato nella sezione dei conflitti dimenticati. Ci si può spostare verso il Pakistan della legge della blasfemia, e poi andare a Nord, in Ucraina, dove il conflitto è ormai in ombra sui media, ma presente e vivo.

Per dirla con una immagine, c’è una mezzaluna rovesciata di conflitti che parte dal cuore dell’Europa, dall’Ucraina, e arriva fino in Africa. È il risultato di una guerra nemmeno troppo latente, in cui le milizie jihadiste sperano di ricreare il grande califfato del Medioevo, magari riprendendosi la Spagna che avevano perso nel 1492. Visto con il senno di poi, nemmeno gli attentati dell’11 marzo 2004 nella stazione di Atocha, a Madrid, sono privi di senso.

La lunga avanzata dell’Islam militante è cominciata di certo prima dell’11 settembre. Ma era stato in qualche modo arginato dalla diplomazia della verità. Una diplomazia di cui si era fatto promotore Benedetto XVI, non senza creare scandalo e polemiche.

A Ratisbona, nel 2006, Benedetto XVI pronunciò la lezione più contestata della sua storia di professore. Spiegava come la violenza radicale associata alla fede è nient’altro che il prodotto del fragile legame tra fede e ragione.

Una tesi che suscitò violente proteste nel mondo musulmano. Ma che in realtà permise la fioritura di un nuovo dialogo. Perché da lì gli esponenti dell’Islam illuminato, quello in dialogo con il mondo e con le altre fedi, hanno avviato un nuovo tavolo di dialogo.

Ne è ben consapevole il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, che quest’anno ha festeggiato i suoi 50 anni con un simposio che ha ripercorso gli anni della sua attività. E così il professor Howard, professore della Heythorp University e consultore del dicastero, ha ripercorso luci ed ombre (ma soprattutto luci) di questi cinquant’anni di dialogo, sottolineando la totale continuità tra i Papi, e mettendo in luce come Benedetto XVI abbia dato “una enfasi distintiva sulla verità”, perché i suoi scritti sono “risolutamente posti in contrasto con ogni accenno di relativismo e offrono il correttivo alla tendenza di dire meno di quello che dobbiamo riguardo il dono della Parola incarnata nell’umanità”.

L’attitudine di Benedetto XVI a parlare “in nome della verità” “ci ha permesso di riaffermare l’impegno continuo della Chiesa” anche superando il “triste momento” in cui “la sensibilità islamica non è stata pienamente rispettata,” ha sottolineato Howard.

E Miguel Angel Ayuso Guixot, numero 2 del Pontificio Consiglio, ha messo tra i risultati più rimarchevoli del dicastero il forum Islamico-Cattolico, stabilito nel 2008 a seguito della lettera scritta a Benedetto XVI da 138 leader musulmani. Proprio quei leader che avevano avuto il coraggio di venire allo scoperto dopo la tanto contestata lezione di Ratisbona.

Gli anni della diplomazia della verità hanno anche portato la Santa Sede a diventare stato osservatore e fondatore al King Abdullah bin Abdulaziz International Centre for Interreligious and Intercultural Dialogue (KAICIID), con sede Vienna (Austria), finanziato dall’Arabia Saudita, che è tra l’altro uno dei pochi stati con cui la Santa Sede non ha relazioni diplomatiche.

Papa Francesco ha ereditato questa diplomazia della verità, ma allo stesso tempo ha scelto un approccio differente, che deriva anche dalla scelta del suo Segretario di Stato. Pietro Parolin, per anni in Segreteria di Stato, ha sempre scelto l’approccio morbid alle questioni, un approccio diplomatic classico, si potrebbe dire, in cui il primo obiettivo è non creare conflitto. È l’approccio che ha volute Papa Francesco.

Il quale ha fatto della preghiera il suo principale strumento diplomatico. Il Papa non ha mai perso di vista le persecuzioni di cristiani nel mondo, e i suoi continui appelli durante gli Angelus, durante le udienze generali, stanno lì a testimoniarlo. Lui stesso ha sottolineato in una intervista che i cristiani sono i più perseguitati al mondo. Ma forse ha anche un po sottovalutato il ruolo della diplomazia.

Lo ha fatto nella storica preghiera ai Giardini Vaticani per la pace in Medio Oriente. Storica, perché nessuno era riuscito a riunire i leader palestinesi e israeliani in preghiera. Ma anche difficile da un punto di vista diplomatico, caratterizzata dalla presenza di un presidente dalla grande autorità morale ma ormai alla fine della carriera politica (Shimon Peres) e il leader di una autorità palestinese che era stata fortemente messa in discussione proprio per aver siglato un accordo politico con Hamas

Il conflitto nato a Gaza ha fatto esclamare al Papa che “l’incontro non è stato vano”. Mentre nel frattempo era esplosa la polveriera irachena, che per la verità era da tempo sotto osservazione per l’avanzata dell’Isis, poi divenuto semplicemente Stato Islamico. Dopo gli appelli, le preghiere, Papa Francesco ha compreso che c’era bisogno di prendere una decisione più netta.

Ha mandato il Cardinal Filoni, prefetto della Congregazione dell’Evangelizzazione dei Popoli, come inviato speciale. Filoni è stato nunzio in Iraq durante la seconda Guerra del Golfo, l’unico dei diplomatici a rimanere a Baghdad sotto i bombardamenti del 2003.. Conosce il territorio, ha i suoi contatti.. E’ partito lo scorso lunedì, passando dalla Giordania. Quando il Papa lo ha incontrato, sabato, gli ha dato come missione di mostrare la vicinanza del Papa, anche concretamente, con un contributo personale del Pontefice che serviva d’aiuto. Ma Filoni ha probabilmente fatto notare che serviva un ombrello diplomatic.

E l’ombrello è stato creato con una lettera a Ban Ki Moon, Segretario generale delle Nazioni Unite. Resa nota il 13 agosto, ma datata il 9, la lettera serve a dare un riconoscimento internazionale alla missione di Filoni ma è anche il segnale concreto del cambiamento di paradigma della diplomazia di Papa Francesco.

La lettera, infatti, fa riferimento al diritto internazionale, con il richiamo preciso al Preambolo della Carta delle Nazioni Unite. Un richiamo che si ritrova in vari testi della Segreteria di Stato vaticana degli ultimi anni, e che riporta proprio alla diplomazia basata sulla verità che ha caratterizzato gli anni di Benedetto XVI.

La citazione del Preambolo non è casuale. Perché nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite, i fondatori dell’Onu hanno voluto dirsi decisi a “riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”. Il fatto che venga usata la parola “fede” è indicativo. La fede indica un dato irrinunciabile e incontestabile.

È la fede nutrita dalla ragione che porta alla consapevolezza che l’essere umano va protetto e difeso nella sua integralità. Da questa integralità dell’essere umano nasce la difesa dei diritti umani. E lo diceva chiaramente Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Redemptor hominis” del 1979, quando aveva individuato nel rispetto dei diritti umani la via maestra per assicurare la pace tra i popoli.

“In definitiva – scriveva Giovanni Paolo II – la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti”.

E’ solo da questa base forte di verità che si può avviare un vero incontro tra le nazioni. Perché la verità nella concertazione internazionale richiede che gli Stati, nel dialogare o anche nel disputare tra loro, abbiano sempre davanti i popoli che essi rappresentano e l’intera comunità mondiale, in quanto la loro dignità morale consiste proprio in questo.

Lo sa bene Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio del Dialogo Interreligioso, diplomatico finissimo che a un certo punto ha deciso che non si poteva tacere. Raccontano che prima di inviare la dichiarazione ci abbia pensato molto, per evitare di sovrapporsi all’attività diplomatica. Poi ha deciso di agire. La dichiarazione ha il merito di chiamare la persecuzione religiosa con il suo nome, e di rendere tutti i leader religiosi corresponsabili. La sua presa di posizione ha portato subito dei leader islamici (come il muftì del Cairo, ma anche la Comunità dei Religiosi Islamici di Italia) a prendere una posizione netta.

E nel frattempo, Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio ONU di Ginevra, ha chiesto una “protezione umanitaria” anche militare per le popolazioni dell’Iraq, e poi ha ribadito il concetto commentando la lettera del Papa a Ban Ki Mooon. “Sono importanti – ha detto Tomasi – le parole che usa il Papa: la tragica situazione obbliga la comunità internazionale. C’è un imperativo morale di parlare, una necessità di agire”.

Gli interventi dei diplomatici segnano la gravità della situazione, mentre nei posti in conflitto le charities cattoliche fanno un gran lavoro ad aiutare chi ha più bisogno, a coordinare gli aiuti. La riforma della carità portata avanti in questi anni serviva anche a dare loro un ombrello giuridico che serve in queste situazioni.

Che sono originate anche da un equivoco. Capita così che la governance internazionale sia intesa colo come una fitta rete di contatti tra Cancellerie, che la governance dell’uso delle risorse e dello sfruttamento dell’ambiente sia in fondo null’altro che un problema di protocolli internazionali, che la governance del commercio internazionale sia un abile bilanciamento di dazi e tariffe.

Nella realtà si è visto che spesso le Cancellerie non sanno evitare le guerre, che i protocolli sull’ambiente vengono concordati con grande fatica e che gli accordi tariffari conoscono fasi prolungate di stagnazione. Tanto che nel messaggio per la Giornata Mondiale del 2007, Benedetto XVI aveva espresso la sua preoccupazione che anche davanti alla governance delle esigenze umanitarie di oggi, molti Stati non fanno quanto è in loro potere fare.

Ma in fondo è il periodo della governance debole, che viene dal periodo del pensiero debole, che porta proprio a quella separazione tra fede e ragione denunciata da Benedetto XVI.

Così, si cerca di avere strutture leggere, di rispettare le differenze di tutti, e in questo modo prevale la frammentazione e il mosaico. Una frammentazione che a volte è di ostacolo anche al lavoro delle organizzazioni internazionali che dovrebbero aiutare le popolazioni.

E così, ci sarà una sessione straordinaria del Consiglio dei Diritti dell’Uomo di Ginevra sulla situazione dei cristiani in Iraq, ma non prima di settembre. Serve che la richiedano un terzo dei 47 membri del Consiglio, e – nonostante lo sforzo della Santa Sede, e con moltissimi incontri bilaterali per sensibilizzare al tema – ancora non c’è stata l’adesione necessaria.

Sarà forse troppo tardi. Fatto sta che intanto i diplomatici vaticani hanno deciso di prendere finalmente in mano la situazione. Giovanni Paolo II aveva parlato di ingerenza umanitaria, un concetto che in fondo ha mancato di una definizione giuridica precisa, e che il Segretario di Stato vaticano emerito Sodano aveva alla fine vagamente definito come “il dovere di proteggere”. Ma ora, di fronte alla mezzaluna di conflitti che va dall’Africa all’Europa, i diplomatici hanno compreso che è il tempo di intraprendere di nuovo la diplomazia della verità e hanno  ripreso in mano le fonti del diritto internazionale.  Per proteggere l’essere umano. E per davvero raggiungere quella cultura dell’incontro di cui parla spesso Papa Francesco.

Pubblicato su www.mondayvatican.com il 18 agosto 2014

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