In questo ultimo anno di pontificato si è anche rumoreggiato che Papa Francesco voglia fare Pio XII beato presto. La formula ce l’ha, la canonizzazione equipollente che ha già usato sei volte nel corso del pontificato. Lo studio storico, carte alla mano, è fatto, ed è tutto dei gesuiti, motivo per cui questa causa gli sarebbe particolarmente cara. La verità è che Pio XII andrebbe rivalutato non solo per la sua fama di santità, ma anche per la sua profezia. E, in tempi di “Terza Guerra Mondiale a pezzi” (definizione di Papa Francesco) andarsi a rileggere i testi di Papa Pacelli può segnare per la Santa Sede una strada. E mostrare anche gli errori strategici che sono stati fatti fino ad adesso.
Con Papa Francesco, la diplomazia non sembra avere vita semplice. Papa Francesco punta molto sulla preghiera, ne ha fatto il suo strumento diplomatico principe. Di ritorno in volo dalla Corea, ha ribadito che la preghiera per la pace per il Medio Oriente in Vaticano non è stato un fallimento, nonostante il conflitto sia esploso a Gaza proprio poco dopo l’incontro nei Giardini Vaticani. In Corea del Sud, il suo appello per la riconciliazione si è unito a quello con i Paesi asiatici che ancora non hanno relazioni diplomatiche con la Santa Sede per “cominciare un dialogo da fratelli”, perché “i cristiani non vengono da conquistatori”. E la strategia sembra essere quella di una diplomazia dei martiri. Ovvero, non cercare il dialogo diplomatico, ma dimostrare la bontà del cristianesimo attraverso fulgidi esempi, per evangelizzare per “attrazione”. Il resto verrà dopo. Per questo motivo, è stata sbloccata la causa di beatificazione del primo martire nord-coreano. E presto ci saranno anche dei martiri del Laos.
Nonostante questo, a un certo punto lo stesso Papa Francesco ha dovuto virare verso una linea più interventista. Sempre nella conferenza stampa in aereo, ha sostenuto la necessità di un intervento in Iraq, per fermare l’aggressore. “Ho detto fermare, non bombardare”, ha precisato. E ha parlato dell’ONU, ribadendo in pratica il principio che da sempre la Santa Sede mette in campo sulle questioni umanitarie. Ovvero che serve una forza internazionale di frapposizione, che gli Stati non possono perpetuare una guerra, semmai possono adoperarsi per fermarne qualcuna. È l’eterno dibattito sulla guerra giusta, che sfociò nel concetto di ingerenza umanitaria. Ma da svolgersi sempre sotto l’egida di un organismo multilaterale, come sono le Nazioni Unite. Ma le Nazioni Unite sono abbastanza forti per supportare gli Stati? È questo gruppo di nazioni uno strumento efficace per il bene comune? Ha l’autorevolezza necessaria?
Ed è proprio qui che torna di attualità Pio XII. Perché è vero che la Santa Sede ha sempre promosso l’impegno e l’importanza delle Nazioni Unite, ed è anche vero che negli ultimi tempi ha parlato sempre più insistentemente di una necessaria riforma delle Nazioni Unite. Ma è anche vero che le Nazioni Unite appaiono essere le più grandi sconfitte dalla drammatica situazione umanitaria che si sperimenta oggi in Iraq.
Di fronte a questa situazione umanitaria, la diplomazia della verità è diventata l’unica strada possibile per creare un supporto diplomatico forte all’azione umanitaria. Ma questo era stato appunto già ben delineato da Pio XII, nel Radiomessaggio di Natale del 1954.
Varrebbe la pena rileggerlo tutto, quel Radiomessaggio. Perché di Pio XII si ricordano solo i radiomessaggi durante la Seconda Guerra Mondiale, quelli che rappresentano in fondo una vera enciclica sociale e che sono alla base della Pacem in Terris e dei document del Concilio Vaticano II che si occupano di dottrina sociale. Ma non viene mai ricordato il messaggio del 1954, scritto quando il mondo è ormai diviso in blocchi e la pace esiste solo perché i contendenti temono la distruzione. “La pace fredda è soltanto una calma provvisoria, il cui durare è condizionato dalla sensazione mutevole del timore”.
In quel messaggio, Pio XII condannava l’idea che la guerra fosse una azione politica, soggetta all’errore del governante, una “concezione assurda e immorale della guerra” che rese vani gli sforzi di Papa Pacelli per evitarla nel 1939. “Niente è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra” è una frase di Pio XII del periodo, e non a caso è spesso citata da Papa Francesco.
Ma per Pio XII si va oltre. “Ogni sforzo o propaganda pacifista che provenisse da chi nega ogni fede in Dio è sempre molto dubbia, incapace di attenuare o eliminare l’angoscioso senso di timore”. Perché è la fede in Dio che ti dà la razionalità di non cercare la guerra, ma di vivere come fratelli. Pio XII già intravedeva la catastrofe che si preparava nel mondo con il misto di ateismo pratico, libero mercato e consumismo. È – dice Pio XII – una “illusione confidare la pace al solo libero scambio”, e “non avverrebbe diversamente in futuro, qualora si insistesse in questa fede cieca che conferisce all’economia una immaginaria forza mistica”.
Diceva Papa Pacelli: “E’ necessario persuadersi che le relazioni economiche tra le nazioni in tanto saranno fattori di pace, in quanto obbediranno alle norme del diritto naturale, si ispireranno all’amore, avranno riguardo per gli altri popoli e saranno fonti di aiuto”.
Guardava con sospetto, Pio XII, anche una unione delle Nazioni Europee basate solo sui fondamenti economici, perché sarebbe una unione fragile, senza una idea “grande ed efficace” che “li renderebbe saldi nella difesa ed operanti in un comune programma di civiltà”.
E pure la coesistenza non basta, ammonisce Pio XII, perché “per giustificare” l’attesa della pace queste deve essere “una coesistenza nella verità”. Non sono adatti, affermava Pio XII, “gli scettici e i cinici” per essere come base dell’unità umana, perché il loro materialismo riduce persino “le più auguste verità a reazioni fisiche o parlano di mere ideologie”. Ma non sono adatti nemmeno “quelli che non riconoscono verità assolute, né accettano obblighi morali sul terreno della vita sociale.” Perché da questa critica distruttiva ed irragionevole “sono venuti spesso incoscientemente a preparare un clima favorevole alla dittatura e all’oppressione”.
Ci sono già abbastanza temi da discutere in questo solo radiomessaggio natalizio. Da qui è partita la Chiesa per portare avanti la sua presenza nel mondo durante la Guerra Fredda e oltre. L’impegno diplomatico si affiancava a un impegno culturale, di catechesi e formazione, che serviva proprio a creare quella coesistenza alla verità.
Eppure, l’hanno avuta vinta i cinici, gli scettici, quelli che non riconoscono verità assolute. L’Europa ha perso la sua identità, lo sviluppo integrale dell’essere umano è passato in secondo piano, le unioni tra Stati sono soprattutto economiche, e sbilanciate verso gli Stati più grandi e ricchi. La Santa Sede ha sempre affrontato con forza questi problemi, criticando anche la formazione dei gruppi G (G7, G8, G20), chiedendo una politica internazionale multilaterale e inclusiva degli Stati più deboli.
Non è bastato. La realtà internazionale è completamente frammentata. Di fronte alla mezzaluna di conflitti che è esplosa dal cuore dell’Europa fino in Africa, si può assistere solo impotenti, perché non ci sono attori internazionali forti all’orizzonte.
La Chiesa cattolica può ancora esercitare una forza morale, aiutare gli stati a perseguire il bene comune. Non ha il potere di deterrenza, come notava il nunzio in Ucraina Thomas Gullickson, ma può esprimere una forza morale basata sulla verità, che è quella che davvero unisce gli Stati.
Così, Papa Francesco deve continuare il suo sforzo per la pace. Le sue parole in aereo hanno ribadito ancora una volta la posizione della Chiesa, il senso di una diplomazia internazionale che non bada ai temi, ma alle persone. E forse dovrebbe prendere ispirazione proprio da Pio XII. E magari beatificarlo per la sua profezia. Una profezia che poi seguì Giovanni XXIII, con il suo lavoro che scongiurò la crisi dei missili a Cuba. Che portò avanti Paolo VI, con i suoi immensi discorsi su pace e disarmo. Che Giovanni Paolo II enfatizzò, con la sua diplomazia che si basava sui popoli e non sugli Stati, forte di quella autorità morale e quella profondità culturale che furono le vere ragioni del crollo dell’Unione Sovietica. E alla quale Benedetto XVI ha dato profondità, con una diplomazia della verità parte di un progetto di riforma tutto teso a dare una struttura (giuridica, teologica) alle grandi conquiste della Chiesa.
Ora Papa Francesco è chiamato a prendere in mano queste questioni fondamentali. Consapevole che dalla forza dei suoi pronunciamenti può dipendere molto del destino dell’umanità.
Articolo originale pubblicato su Monday Vatican il 25 agosto 2014
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