Paolo (Luigi Lo Cascio) e Massimo (Alessandro Gassman) sono due fratelli con caratteri molto diversi, quasi agli antipodi. Il primo, chirurgo pediatra, ha una visione della vita in cui bene e male sono distinti in maniera piuttosto manichea, mentre l’altro è più abituato alle scale di grigi e dotato di tutto il cinismo necessario per svolgere al meglio il mestiere di avvocato.

Nonostante abbiano così poco in comune, Paolo e Massimo conservano ormai da anni l’abitudine di cenare una volta al mese, nello stesso ristorante, insieme alle rispettive consorti (Giovanna Mezzogiorno e Barbora Bobulova) che a stento riescono a celare la reciproca antipatia.

Questo fragile equilibrio implode la sera in cui la trasmissione “Chi l’ha visto?” manda in onda le immagini, riprese da una telecamera di sorveglianza, che mostrano due ragazzi molto simili ai loro figli adolescenti, mentre picchiano selvaggiamente una senzatetto fino a ridurla in coma. Dopo l’iniziale e comprensibile incredulità, le due coppie cercano di affrontare, ognuna a suo modo, le conseguenze che quel gesto sconsiderato potrebbe avere sulle loro vite, ritrovandosi a interrogarsi su quanto poco conoscano le rispettive realtà familiari.

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Ivano De Matteo, già autore degli interessanti La bella gente e Gli equilibristi, adatta liberamente il romanzo di Herman Koch La cena per il grande schermo e produce un’opera ambiziosa e complessa, anche se imperfetta. Sin dalle prime scene è infatti evidente come l’attenzione del regista sia molto più focalizzata sulla descrizione dei contesti sociali e umani in cui i due fratelli si trovano ad agire che non sul plot vero e proprio. De Matteo, che ha presentato il film alle Giornate degli Autori a Venezia 71 nei giorni scorsi, inizia col mostrarci due famiglie solo apparentemente perfette per poi divertirsi a intaccarne dall’interno la patina, evidenziandone le numerose crepe, fatte di cene sul divano e frasi smozzicate, pronunciate da adolescenti di ritorno da scuola e ormai in totale balìa dei social network.

La tazza sbeccata di cui parlava Moretti ne La stanza del figlio è diventata, a distanza di pochi anni, una voragine incolmabile che si riflette nell’amara rassegnazione con cui questi “giovani” genitori osservano i propri figli come se fossero piccoli sconosciuti con cui è impossibile comunicare, ma di cui andare comunque sempre orgogliosi.
E, in maniera simile, De Matteo è talmente innamorato dei suoi personaggi da dilungarsi forse un po’ troppo ad osservarli vivere, parlare, lavorare per poi rendersi conto, quando il film è ormai quasi finito, di non avere più il tempo necessario a chiudere la storia in modo netto.

Ciò non toglie che I nostri ragazzi sia in buona parte riuscito, soprattutto nel suo porre una domanda assai scomoda (sostanzialmente: che faremmo se una cosa del genere accadesse a noi?) e rispondere come in pochissimi sarebbero disposti a fare.
Piace della pellicola lo stile visivo elegante e, al tempo stesso, freddo come gli ambienti in cui abitano i personaggi e pieno di guizzi citazionisti, dal potente prologo che ricorda la scena iniziale de Il maratoneta di John Schlesinger fino a un finale che, senza dir nulla che possa rovinare il piacere della visione, rimanda direttamente a Roman Polanski e al suo L’uomo nell’ombra.

E non appaia peregrino il riferimento al regista polacco in quanto, in più di un’occasione, il confronto tra i quattro protagonisti del film (tutti molto bravi, con Alessandro Gassman una spanna sopra gli altri) può in effetti riportare alla mente, pur senza toccarne le vette, gli scontri verbali di Carnage.

Ecco, semmai spiace che De Matteo non abbia lavorato maggiormente sulla dimensione orrorifica del racconto (perché in fin dei conti di horror si tratta) e non abbia permesso alle correnti interne al film di deflagrare liberamente piuttosto che ripiegare su un intimismo che, di fatto, contribuisce ad appesantire la seconda parte dell’opera.
I nostri ragazzi paga inoltre il prezzo di arrivare dopo il bellissimo Il capitale umano di Virzì che, partendo da tematiche tutto sommato similari, riusciva a osare di più sia in termini di cattiveria che di critica sociale pura.

[Thanks, Movielicious!]

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