In un futuro indefinito, la Terra è ormai un pianeta quasi del tutto inospitale.
Alcuni drastici cambiamenti climatici hanno infatti compromesso l’ecosistema fino a rendere impossibile qualsiasi tipo di agricoltura, all’infuori di quella di granoturco, e funestano le città con continue e violente tempeste di sabbia.
Quando alcuni scienziati scoprono un wormhole attraverso il quale raggiungere galassie lontane distanze inimmaginabili, decidono di intraprendere un viaggio per cercare nuovi pianeti in cui ricostruire le risorse naturali della Terra così da preservare il genere umano.
Il passaggio attraverso un “buco nero” comporta però la perdita degli abituali confini di spazio e tempo e i partecipanti alla missione si troveranno a vivere ore che, sulla Terra, corrispondono ad anni, con tutta la paura di ciò che potrebbero trovare una volta tornati a casa.
Con la trama, meglio fermarsi qui. Non tanto per il rischio di spoiling – ché un film così complesso, nella sua continua sovrapposizione di significanti, in tal senso non ha quasi nulla da temere – quanto perché, di fronte a un capolavoro ipertestuale come Interstellar, il concetto stesso di sinossi perde gran parte del suo significato.
Vera opera monstre e summa concettuale di una riflessione sulla relatività iniziata da Christopher Nolan già con Memento e portata avanti (sia con The Prestige che con Inception) con rara coerenza, Interstellar rappresenta il punto di non ritorno di tutto lo sci-fi venuto dopo2001 – Odissea nello spazio e, allo stesso tempo, una più che valida ipotesi per una futura ridefinizione del genere.
Ed è proprio qui che l’autore della trilogia de Il Cavaliere oscuro ha la sua intuizione più geniale: focalizzarsi interamente sull’uomo e sul suo istinto di sopravvivenza, in una sorta di fantascienza umanista che è un ossimoro solo all’apparenza.
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I primi quaranta minuti sono l’antitesi della fantascienza per come siamo abituati ad esperirla e, con tutta quella polvere a ricoprire le superfici e le sconfinate distese di granoturco, a tratti sembra quasi di assistere a una trasposizione modernista di Furore di Steinbeck.
In quest’ottica, non sbaglia affatto Quentin Tarantino nel paragonare quest’ultimo Nolan a Terrence Malick: li accomuna infatti la stessa, estrema sensibilità nella costruzione di un’etica dell’inquadratura e nella definizione di volti così fortemente vissuti.
L’umanismo insistito del lungo prologo non serve all’autore (che non è mica un M. Night Shyamalan qualunque) per creare uno scollamento ancora più estremo con la successiva deriva sci-fi della storia, bensì per dilatare quell’emotività per tutto l’arco del racconto in modo molto spielberghiano.
Anche quando entra in gioco il discorso sulla relatività del tempo, l’approccio è sempre umano.
Si ragiona infatti più sull’invecchiamento dei propri cari che non sull’eterna giovinezza e, quando si ipotizza l’esistenza di altre forme di vita, la mente va più in cerca di possibili letture metafisiche (aiutata in questo anche da una serie di riferimenti biblici insiti nell’opera) che non di eventuali presenze aliene.
Si era molto parlato, nei mesi scorsi, di quanto Interstellar sarebbe stato accurato nel descrivere e rappresentare le eventuali forzature delle leggi che regolano le dimensioni di spazio e tempo e della collaborazione, in sede di scrittura, del maggior esperto di relatività generale Kip Thorne. E in effetti, tutto ciò che viene mostrato appare come incredibilmente reale.
A detta della comunità scientifica, ad esempio, il film contiene la più accurata rappresentazione di un buco nero.
Nulla appare lasciato al caso e non c’è una sola scena in cui la volontà di abbacinare il pubblico abbia la meglio sul realismo di fondo.
Ma, al netto di tutto ciò, Interstellar è una gioia per gli occhi infinita.
Non c’è una sola inquadratura che sia anche solo meno che bella.
La maestosità del 70mm (formato utilizzato, negli ultimi anni, solo per The Master di P.T.Anderson e Django Unchained) unita alla sapienza registica di Christopher Nolan, garantiscono allo spettatore qualcosa di molto più vicino all’esperienza sensoriale che non alla semplice fruizione di un film.
Accadeva già in Gravity di Alfonso Cuaron, ma qui tutto è amplificato da una maggiore profondità strutturale.
Interstellar è un’opera così totalizzante che rende ardua l’analisi lucida di ogni suo singolo aspetto tecnico, che sia la splendida fotografia di Hoyte Van Hoytema (La talpa, Her) o la straordinaria colonna sonora dalle vaghe reminiscenze seventies di Hans Zimmer.
Persino gli attori (un cast davvero eccezionale) sembrano limitare qualsiasi mania di protagonismo per partecipare con estremo rigore alla perfetta riuscita di un film che si riconosce sin da subito come assolutamente fuori dall’ordinario.
Un film-buco nero che, una volta attraversato, altera momentaneamente la percezione del tempo fino a non far percepire affatto il peso delle sue (quasi) tre ore di durata e che, anzi, a un certo punto si vorrebbe proprio non finisse mai.
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