Lo sciacallo_locandina originale italianaLou Bloom (Jake Gyllenhaal) è un giovane spiantato che, non riuscendo a trovare lavoro, si arrabatta rubando e materiale edile da rivendere, a prezzi stracciati, alle imprese di costruzione. Testimone involontario di un incidente stradale, una notte Lou assiste all’arrivo di una troupe televisiva accorsa in loco per riprendere i particolari della sciagura. Decide quindi di munirsi di una videocamera e di passare le notti in macchina correndo, spesso addirittura in anticipo rispetto all’arrivo dei soccorsi, sui luoghi delle emergenze per catturare immagini cruente da vendere alle emittenti televisive per le news del mattino.
Il successo immediato dei suoi filmati rende Lou sempre più spregiudicato e insensibile verso il dolore altrui, fino a spingerlo a interferire con l’arresto di due pericolosi criminali pur di ottenere un ulteriore e remunerativo scoop.
Certi limiti però, una volta superati, comportano un prezzo piuttosto alto da pagare.

Dan Gilroy (già sceneggiatore di The Bourne Legacy) fa il suo esordio alla regia con questo potentissimo e lucido apologo sulle possibili derive della TV verità abilmente travestito da thriller e da poco presentato al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Mondo Genere. Film riuscitissimo sin dalle sue sequenze iniziali (una Los Angeles cupa e notturna come non la si vedeva dai tempi di CollateralLo sciacallo convince su tutti i fronti e, anche laddove prende una posizione molto netta sulla questione etica del filmabile e sul punto oltre il quale non ci si dovrebbe mai spingere, non lo fa attraverso il classico e abusato meccanismo della parabola di redenzione.

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Il valore maggiore del film risiede infatti proprio nel suo non imporre una morale posticcia e politically correct alla storia. Nemmeno, in extremis, nell’amarissimo finale.
Il protagonista perde gradualmente umanità fino a diventare un semplice prolungamento della sua videocamera piuttosto che il contrario, ma l’autore ci tiene a suggerire allo spettatore come, imboccando certe strade, il più delle volte il ritorno non sia assolutamente contemplato.
Lo stesso vale – ma è il punto di vista forse meno intrigante del film – per il sistema dei network televisivi, descritti come covi di sciacalli all’interno dei quali i pochi refrattari a certi metodi di sfruttamento del dolore vengono prima ridotti in minoranza e poi al silenzio.

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Tra gli elementi che rendono Lo sciacallo qualcosa di più di un buon thriller c’è senz’altro da annoverare l’interpretazione di un Jake Gyllenhaal mai così in parte.
Nell’inquietante fissità di sguardo che l’attore impone al suo Lou c’è tutta la cieca determinazione del self-made man che il Sogno Americano propina più o meno da sempre e, nello stesso sguardo, di quel sogno si riesce a intravedere anche l’epitaffio.
Lou Bloom, lungi dall’essere un semplice osservatore passivo, è una sorta di Travis Bickle che di fronte all’orrore circostante non cerca più di aggiustare le cose, ma decide di sfruttarne appieno il potenziale e Gyllenhaal (dimagrito di 10 chili per rendere al meglio la tensione nervosa del personaggio) è davvero bravissimo nel sottrarre qualsiasi forma di emozione al proprio volto (soprattutto agli occhi) fino ad incarnare lo spettro di ciò che qualsiasi spettatore corre spesso il serio rischio di diventare.
Piace inoltre la regia di Gilroy, così profondamente debitrice delle night-vision di Michael Mann, che non indugia mai sui particolari più raccapriccianti per privilegiare il non visto e forse, proprio in virtù di questa scelta, scuote e turba di più di chi certe scene le mostra in modo esplicito.

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