Viviane_locandina originale

Qualora si desiderasse scorrere una lista di film sulla crisi di coppia, non sarebbe difficile imbattersi nel premiatissimo (5 Oscar), Kramer contro Kramer (1979), storia di un doloroso distacco familiare, nobilitata dalle performance di Dustin Hoffman e Meryl Streep; oppure nel capolavoro di Ashgar Fahradi, Una separazione (2012), di cui abbiamo ancora negli occhi le commoventi sequenze che hanno conquistato le platee e le giurie di mezzo mondo (Orso d’Oro a Berlino, Miglior film straniero agli Academy Awards e ai David di Donatello…).

Non sappiamo se la stessa fortuna arriderà a Gett – The Trial of Viviane Amsalem, terzo capitolo della trilogia di Ronit e Shlomi Elkabetz, comprendente To Take a Wife (2004) e 7 Days (2008), opera già presentata a Cannes (Quinzaine des Réalisateurs), e designata a rappresentare la cinematografia israeliana nella magica notte delle statuette dorate di Hollywood, ma siamo certi che l’uscita sugli schermi italiani col più laconico titolo di Viviane non lascerà indifferente il pubblico più sensibile. E non si tratta solo di una questione di lacrime, che avranno tuttavia il sacrosanto diritto di rigare le gote degli spettatori.

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Perché la vicenda della protagonista pone in evidenza la drammatica condizione del genere femminile nell’acquisizione della legittima libertà negata dalla società patriarcale israeliana. Viviane Amsalem, interpretata dall’attraente Ronit Elkabetz (anche sceneggiatrice e regista insieme al fratello Shlomi) è una donna ferita dalla lunga convivenza con il marito Elisha (l’ottimo Simon Abkarian) al quale ha donato quattro figli e la propria costante dedizione. Ma l’usura del tempo, unitamente al carattere ostinatamente tradizionale del consorte, l’hanno disanimata, convinta della sopravvenuta incompatibilità con il coniuge.

Ritroviamo allora Viviane in una località non meglio definita, nella spoglia aula di un tribunale rabbinico – in Israele il matrimonio civile non esiste – ben supportata e confortata dall’avvocato Carmel (Menashe Noy), a chiedere l’annullamento della propria unione. Ma non sarà facile. Anzi. Il marito diserta con regolarità le udienze, e quando viene costretto a parteciparvi si dimostra reticente, miope e intransigente. I giudici, dal canto loro, esibiscono tutta l’ambiguità che li contraddistigue nel condurre un iter inadeguato sia dal punto di vista della giurisprudenza che sul piano etico.

Insomma, Elisha si rifiuta di concedere il divorzio (il gett in ebraico) alla moglie, la quale, durante cinque lunghissimi anni lotterà con orgoglio e determinazione contro un sistema palesemente maschilista che non le risparmierà umiliazioni e cattiverie, come pure sconvenienti insinuazioni, specialmente da parte del legale della controparte, nonché fratello maggiore del marito, Shimon (Sasson Gabai). La rappresentazione procede come in un legal thriller, reiterando, seduta dopo seduta, il solito rituale: le accorate requisitorie dei legali, le indolenze dei giudici, preoccupati soprattutto di preservare lo shalom beit, cioè la pace domestica, e la sfilata dei testimoni convocati dalle parti (parenti, amici e vicini di casa), i quali, non fanno altro che colorire lo scenario da teatro dell’assurdo che si compone e si dissolve attraverso dialoghi e situazioni, ora agitati e dolorosi, ora grotteschi e sconcertanti.

Sono i momenti più emozionanti del film; la rabbia che sale per la difficoltà da parte della donna di ottenere il diritto di affrancarsi dallo stato di schiavitù psicologica e morale in cui viene costretta si alterna agli scoppi di risa provocati dagli intermezzi comici, come in una sorta di climax narrativo sapientemente interrotto da semplici, ma efficaci idee di regia, ad esempio, le riprese, perlopiù in soggettiva: il pianto discreto di Viviane, l’espressione indifferente e minacciosa di Elisha, l’impegno civile di Carmel, avverso all’oscurantismo religioso, i gesti e i volti naif degli anziani comprimari, figure che evidenziano la rassicurante consuetudine della società, ma al contempo risultano emblematiche rispetto al nuovo che tarda ad avanzare, pur nel vicino Oriente, nel civilizzato e democratico stato israeliano.

Ma non solo alle spose mediorientali o all’universo muliebre islamico è indirizzato il messaggio dell’opera, quanto alle donne di tutto il mondo, ancora imprigionate da norme obsolete e sessiste, e dagli stessi uomini, come hanno dichiarato Ronit e Shlomi Elkabetz in una recente intervista. Fondamentalmente, Viviane è un’eroina, una combattente per la libertà, disposta all’emarginazione sociale, alla rinuncia ad esser madre e moglie, all’annichilimento della sua femminilità, al sacrificio della propria felicità per compiacere il maschio dominante. La sostiene un’enorme forza morale, una serena risolutezza che, alla fine, forse, le consentirà di raggiungere il divorzio, la tanto agognata indipendenza, magari rinunciando proprio alla libertà.

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