Sempre più lontano dal meccanismo semplice ed efficace del primo capitolo, il terzo Hunger Games cerca di guadagnare tempo, di aggiungere sostanza alla narrazione, ma cade sotto i colpi di un nemico invisibile e letale: la tetralogia…
Tre cuori e una rivoluzione
Katniss Everdeen si risveglia nel Distretto 13. In quello che resta del Distretto 13. Mentre i Giochi sono stati cancellati per sempre, la lotta per la sopravvivenza va intensificandosi. Di fronte a una realtà scoraggiante – e con lo sguardo di una nazione piena di speranza – Katniss deve usare il suo coraggio, la sua forza e il suo potere contro l’onnipotente Capitol City. Questo è il momento in cui si rende conto di non avere altra scelta, se non di spiegare le ali e incarnare pienamente il simbolo della Ghiandaia Imitatrice. Per salvare Peeta, deve diventare una leader…
La struttura narrativa della saga di Hunger Games scricchiola fin dalle fondamenta, dalla (malsana) idea di allungare a dismisura un blockbuster fantascientifico che era partito come un agile young adult e si è via via trasformato in un affresco diluito di un futuro distopico, con tanto di riflessione sui media, sulla politica, sulla propaganda bellica, sulla centralità dell’immagine, dei corpi, delle eroine dello star system. Tanta carne al fuoco, quantomeno nelle premesse.
Ad affossare Hunger Games: il canto della rivolta – Parte 1, nonostante il budget e il cast di assoluto rispetto, è la smania di mungere a più non posso gli spettatori. Indubbiamente una scelta che permetterà di scalare una volta di più il box office, ma che annacqua le potenzialità del racconto, dei personaggi, del mondo descritto da Suzanne Collins. In sostanza, Francis Lawrence smonta il meccanismo compatto di Gary Ross, evidentemente troppo antispettacolare e trattenuto per le ambizioni della Lionsgate e della Universal. E così questo primo atto del Canto della rivolta si accoda un po’ paradossalmente ai vari Divergent, The Host e The Giver – Il mondo di Jonas, perdendo il suo status di capofila di questa ondata di blockbuster per adolescenti post-Twilight & Harry Potter.
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Il passaggio tra il secondo e il terzo capitolo è abbastanza traumatico. Lo spettatore, al pari dell’eroina Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence), viene catapultato in un mondo grigio, claustrofobico, fastidiosamente standardizzato. Un comunismo per scolaretti. Siamo più nel campo della serialità che della saga, in un percorso che sembra inverso rispetto alla maturazione cinematografica di alcuni prodotti per il piccolo schermo. Jennifer Lawrence, a suo agio nella parte, sembra avanzare a velocità di crociera, in attesa di uno script migliore.
I colori pacchiani e sgargianti di Hunger Games: la ragazza di fuoco sono un ricordo, così come i ritmi e le cadenze dei giochi. Un ribaltamento potenzialmente interessante, anche se un po’ troppo didascalico, ma indebolito dalle lungaggini, dalle inutili sottolineature: il personaggio di Katniss è forzato a ripartire praticamente da zero, vive turbamenti a comando, scivola in ridondanti trappole sentimentali. Le macerie, i corpi carbonizzati, le angherie di Capitol City e persino le stragi di innocenti sembrano scivolare via senza lasciare traccia, come il triangolo Katniss-Peeta-Gale o il destino dei personaggi secondari (Prim e Finnick, tanto per citarne due…). I “cattivi” sono distanti, gelidi, vivacizzati giusto dal carisma di Donald Sutherland, così come non basta infilare Julianne Moore in una tutina, cercando di caratterizzarla con dei capelli dai riflessi ambigui. Ancora una volta, comunismo per scolaretti, in attesa che anche il grigio si riveli un colore…
Resta il dato interessante, ma giusto sul piano statistico, dell’ennesimo leader distopico declinato al femminile.
Hunger Games: il canto della rivolta – Parte 1, ma in generale tutta la saga, si adagia sul basso livello dei prodotti young adult, cercando di riempire i buchi di sceneggiatura e di rinforzare i contenuti con attori di talento e personalità (Philip Seymour Hoffman, Woody Harrelson, Stanley Tucci). Fantascienza all’acqua di rose, legata mani e piedi alla celebrità della Lawrence. Davvero troppo poco per una tetralogia.
[Thank you so much, Quinlan!]
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