Chi, come lo scrivente, avesse letto Lo Hobbit una trentina di anni fa ne avrebbe ricavato un’idea fiabesca totalmente differente da quella odierna, ormai fortemente cristallizzata nell’immaginario comune dall’iconografia di Peter Jackson. Difatti, il successo planetario della Trilogia dell’Anello ha trasformato una bonaria e colorata storiella per bambini in un una parabola che preconizza l’oscurità dei tempi a venire, e in un’evidente allegoria della crisi globale del mondo contemporaneo.
In questo terzo, e ultimo, capitolo della saga di Bilbo Baggins intitolato Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate vengono ancora una volta messi in risalto gli intenti culturali ed economici dell’impero mediatico, in un momento in cui il genere fantasy, al cinema e in libreria, sembra aver rallentato la fase ascendente della sua parabola. In altri termini, si avverte che il racconto sia stato decisamente orientato sul binario del puro intrattenimento, al fine di compiacere l’ampia fetta dei sostenitori del franchise, intrecciando all’ordito principale della trama un certo numero di microstorie parallele che presentano un bestiario fantastico originale, ma perlopiù stucchevole, effetti visivi tutt’altro che mirabolanti, e uno stuolo di situazioni e personaggi consueti, come gli stregoni Gandalf e Saruman (Ian McKellen e Christopher Lee), e gli elfi Galadriel, Legolas ed Elrond (Cate Blanchett, Orlando Bloom e Hugo Weaving).
Crediamo tuttavia che il ricorso – esagerato – alle scene belliche, talvolta troppo simili agli scontri e ai duelli dei più noti videogiochi, sebbene nocciano all’introspezione, al travaglio interiore dei protagonisti, e all’epica della narrazione, possano portare comunque i risultati previsti al botteghino delle feste, in barba alla coerenza della sceneggiatura, alla creatività e all’ironia di Peter Jackson, apparso in affanno in diverse occasioni, e al cast stellare in cui tutti pare vogliano apparire per un istante, anche a proferire solamente la frase topica: “il pranzo è servito”.
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In alcuni momenti, però, la magia dei precedenti episodi de Il Signore degli Anelli si manifesta nuovamente, come nella lunga sequenza in cui il re Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) si aggira come un lupo famelico tra le montagne d’oro del tesoro dei nani, ossessionato dal prezioso metallo che gli sta consumando l’anima e alienando le amicizie e l’onore. Oppure, quando assistiamo all’entrata in scena della compagine elfica, algida e superba come si richiede, capitanata dal solenne sovrano degli elfi silvani Thranduil (Lee Pace) in sella al grande alce. Al contrario, piuttosto insipida risulta la storia sentimentale tra l’elfa guerriera Tauriel (Evangeline Lilly, la “bella” di Lost) e il nano Kili (Aidan Turner), quanto solito e prevedibile l’intervento salvifico delle aquile; e perfino il drago Smaug (nella versione originale fornito della voce del “gettonatissimo” Benedict Cumberbatch) appare piuttosto tedioso.
Proprio alla minacciosa creatura volante è riservato l’incipit del film. Il mostruoso animale si abbatte con tutta la sua ira su Pontelagolungo, spargendo fuoco e fiamme, morte e devastazione in ogni angolo del borgo lacustre, indifferente degli inermi che cercano la fuga per mezzo delle imbarcazioni. Il solo Bard l’Arciere (Luke Evans) avrà l’ardire di sfidarlo. E solo un dardo “speciale” scagliato dal suo arco raggiungerà l’unico punto vulnerabile della corazza del drago. I sopravvissuti riparano dunque a riva, guidati dall’eroe che li ha salvati, diretti alle rovine di Dale, città un tempo florida ai piedi della Montagna Solitaria, dove i nani sono in balia degli insani umori di Thorin, offuscato dalla cupidigia, dal livore e dalla malafede.
A Erebor, la suggestiva capitale che si snoda nelle viscere della montagna, il monarca ha rinforzato i bastioni in previsione di un attacco. Bard giunge di fronte alle fortificazioni reclamando la parte del tesoro promessa in cambio dell’aiuto fornito ai nani, allo scopo di ricostruire Dale, e per soccorrere la propria popolazione stremata. Anche Thranduil e le sue schiere argentee giungono al cospetto di Thorin pretendendo la restituzione degli antichi gioielli elfici. L’avido Scudodiquercia, però, non molla, anzi, sfida sprezzantemente gli interlocutori, attendendo il prossimo arrivo del cugino Dain Piediferro dei Colli Ferrosi (Billy Connolly) con il suo potente esercito.
Il caparbio Bilbo Baggins (Martin Freeman) tenta di ristabilire la pace poiché “non c’è gloria nell’uccidere qualcuno o morire di morte violenta”. Perciò dona l’Arkengemma, la pietra sacra dei nani, al re degli elfi, onde favorire una trattativa di scambio. Senza risultato. Thorin ora è infuriato.
Ma mentre il conflitto sta per esplodere, una minaccia ancor più spaventosa incombe all’orizzonte. Sauron ha inviato le più sanguinarie legioni di orchi guidate dall’orrido Azog il Profanatore per conquistare la Montagna Solitaria. Ad essi si aggiungono gli agguerritissimi mannari. Dale è assediata, gli elfi sono costretti a difendersi, i nani oppongono una ferrea resistenza. Allora, Nani, Elfi e Uomini dovranno unirsi contro Orchi e Mannari se vorranno nutrire qualche speranza.
Nell’epica battaglia delle Cinque Armate – da cui il titolo del lungometraggio – si deciderà il futuro della Terra di Mezzo. Il nostro racconto può interrompersi qui. Non neghiamo il gusto della sorpresa agli spettatori che dovranno attendere le gesta degli eroi, e i numerosi colpi di scena, a partire da mercoledì 17 dicembre, quando l’ultima fatica di Peter Jackson arriverà sugli schermi italiani. Esposta con accurata semplicità, ma al contempo complessa e intricata, l’opera è destinata a catturare l’attenzione del recettore medio, il quale, non avrà difficoltà a riconoscere i temi che prevalgono nell’intreccio narrativo: la ricerca e l’acquisizione del sapere, il Viaggio, inteso come scoperta, ma anche come esplorazione dell’Io, la realizzazione di un Ordine superiore, o il compiersi del fato, l’evoluzione interiore dei personaggi e l’eterna lotta tra il Bene e il Male.
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