“Ci sono tre tipi di persone: le pecore, i lupi, e i cani pastore”…e i cani da pastore uccidono in nome del Bene.
Così Wayne Kyle, padre di Chris (Bradley Cooper, il cui lato positivo cresce di ruolo in ruolo), spiega la differenza tra bene e male al figlio protagonista di American Sniper, l’ ultimo film del leggendario Mr. Clint Eastwood, affiancato questa volta dallo sceneggiatore Jason Hall, dove il SEAL Chris Kylee con tanto di passato da cowboy, (come da perfetta tradizione texana), viene addestrato come cecchino e, nel 2003, inviato sul fronte iracheno ove si distinguerà sino a diventare una vera e propria leggenda con il record di 160 bersagli ufficiali colpiti, (compresi donne e bambini), in circa cinque anni divisi in “turni” di alcuni mesi. Sullo sfondo, una bella famiglia (sua moglie sulla scena è la divina Sienna Miller) ed un’immancabile Bibbia sul comodino, convintissimo che Dio sia dalla sua parte…e dove altro potrebbe stare visto che protegge i giusti?
Nel 2009 Chris si congeda, nel 2012 pubblica la sua autobiografia e l’anno successivo…
Se pensaste: «Banale, ci sarà sicuramente una sottolettura», potremmo rispondervi citando Collodi: “No ragazzi avete sbagliato”. Dimenticatevi, infatti, Kubrick e Coppola. Niente denuncia e soprattutto niente “Cavalcata delle Valchirie”; questa pellicola è il semplice ritratto, nudo e puro, di un eroe americano dei giorni nostri perché è proprio lì che l’Ispettore Callaghan vuole andare a parare.
Tralasciando ovviamente la sua ben nota simpatia repubblicana, Eastwood lascia parlare il suo protagonista attraverso le immagini, creando un film monumento (ai caduti) e lo fa lasciandole scorrere sullo schermo per 132 minuti circa, lisce come l’olio. Non giudica. «Più che un film di guerra ci ho visto una storia sui sacrifici di un soldato» ci dice ed è proprio così.
[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=JMbTCYQN7l4[/youtube]
Inevitabile però, per noi pubblico italiano, non trovarci straniti di fronte a tutto questo patriottismo guerrigliero post 11 settembre che ci è così lontano, anzi, non possiamo proprio capirlo, ma se proviamo ad allontanare la prospettiva, i contorni dell’eroe sfumano e rimangono quelli di un fanatico killer che andrà davanti a Dio con la coscienza pulita: «Non è importante quante persone ho ammazzato. Avrei voluto ucciderne molte di più…perché credo che il mondo sarebbe migliore senza quei selvaggi là fuori che si prendono vite americane».
Ciò che ne rimane è un film bidimensionale, ovviamente sceneggiato magistralmente e con perfette ricostruzioni d’ambiente (Nota del caporedattore: impossibile, nella scena di apertura, non pensare ad Homeland, l’adamantina serie che ci ha scolpito in mente l’incipit della preghiera musulmana) ma che scivola sugli intermezzi più interessanti e non approfondisce né i risvolti psicologici né il percorso emotivo di Chris Kylee. Certo, Eastwood ha come pregio di non scadere mai nella retorica ma a che prezzo?
Ci chiediamo con che occhi l’avremmo guardato se, invece di essere nati nel bel paese, fossimo originari delle rive del Mississippi o del Texas e, nel mentre, resta forte la nostalgia di Gran Torino. Non è questione di ideologia ma di struttura.
Concordo.
D’accordo con te al 99% anche se credo che in tutto questo si può anche trovare una linea antimilitarista.
La destrutturazione di un uomo che è si un eroe ma che non può essere un buon padre e un buon marito, drogato di guerra (e qui mi ritorna alla mente il solda Jocker di Full Metal Jacket che dice che voleva visitare il Vietnam per essere il primo ragazzo del suo palazzo a “fare centro dentro qualcuno”) e completamente preso da quello che è essere “il cane da pastore”. La scena in cui incontra il fratello che torna a casa e le loro visioni sono così lontane secondo me è indicativa.
I cani da pastore hanno un padrone e ricevono ordini, hanno poco da pensare, anche perchè, pensare, nell’esercito è pericoloso.