Dominio, sottomissione, traumi infantili e romanticismo fiabesco, caratterizzano il prototipo del nuovo cinema erotico del XXI secolo: Cinquanta sfumature di grigio di Sam Taylor-Johnson.
Fade to Grey
La laureanda Anastasia Steele viene trascinata in una storia d’amore sadomaso con un giovane uomo d’affari di successo, Christian Grey. L’uomo ama talmente le pratiche erotiche estreme da far firmare alle sue amanti un contratto nel quale accettano di sottomettersi totalmente a lui prima di iniziare la relazione…
L’erotismo è, da almeno un paio di decenni, uno dei grandi rimossi del cinema mainstream americano, tutto concentrato su saghe young-adult rivolte a un pubblico di minorenni, nel quale si riconosce l’unico target in grado di garantire il successo planetario di un film. Non si può dunque che salutare con un certo favore l’arrivo nelle sale di Cinquanta sfumature di grigio, pellicola tratta dall’omonimo bestseller di EL James i cui scopi didattici – ampliare non tanto il range di pubblico possibile, quanto le sue fantasie erotiche – sono tra l’altro piuttosto scoperti.
Diretto dalla regista di Nowhere Boy (una tiepida biografia dedicata al giovane John Lennon) Sam Taylor-Johnson, il film è un adattamento piuttosto scaltro del libro della James, dal momento che elimina tutte le tremebonde ridondanze del testo (la vita universitaria di lei e della coinquilina, ma soprattutto il ripetitivo flusso di coscienza nel quale la protagonista si sdilinquisce a celebrare quanto è bello, ricco, potente e come cadono bene i pantaloni sui fianchi al suo oggetto del desiderio), per concentrarsi sulla tensione erotica e sulle prodezze sessuali della coppia. Protagonista della storia è qui la scialba e malvestita studentessa di letteratura inglese Anastasia Steele (Dakota Johnson) che, trovatasi a sostituire la coinquilina giornalista, si imbarca in un’intervista al fascinoso Christian Grey (Jamie Dornan), ambito e ricchissimo uomo d’affari. Lei resterà sedotta dalla sicumera dell’uomo, mentre lui, verrà irretito dall’ingenua goffaggine della ragazza. Ma Mr. Grey ha dei gusti ben precisi per quel che riguarda le relazioni private, e dunque sottoporrà alla nuova venuta un dettagliato contratto, nel quale le propone di diventare la sua sottomessa. La negoziazione è aperta, come in qualsiasi storia d’amore che si rispetti.
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Ma se l’obiettivo di Cinquanta sfumature di grigio era sdoganare le pratiche BDSM presso il grande pubblico, bisogna subito dire che l’autrice (e in questo caso, per prima, la scrittrice) incorre almeno in un paio di errori grossolani. A parte il fatto che per gli adepti del BDSM l’amplesso “standard” (che loro chiamano, in senso vagamente dispregiativo, “vaniglia”) è del tutto accessorio, mentre qui viene ampiamente praticato, l’aspetto davvero torbido della questione è il fatto che libro e film si preoccupano di fornire una causa prima alle preferenze sessuali di Mr. Grey, causa che risiede, ça va sans dire, in un trauma infantile. La storia dunque, nonostante la sua promessa da un lato di scandalizzare e dall’altro di istruire, assume una piega marcatamente convenzionale, con lui che coltiva la sua adepta e lei che risponde tentando di “curarlo”. C’è da aspettarsi dunque che la comunità BDSM si indigni almeno quanto le femministe, che pare stiano già organizzando le loro proteste.
Pas de scandale in ogni caso, Cinquanta sfumature di grigio è un prodotto indirizzato al grande pubblico e non lo nasconde affatto, per non sbagliare, d’altronde, utilizza i classici strumenti narrativi della fiaba, innestando Cenerentola con un po’ di Barbablù o, quando vuole volare un po’ più alto, Jane Austen e Thomas Hardy, come suggerito esplicitamente (e in maniera piuttosto brillante) nel corso del primo incontro tra i due protagonisti. Inutile nascondere poi, che la storia è in fondo la stessa della fortunata saga di Twilight, dove l’iniziazione-morso è tanto ritardata dal titubante vampiro con remore (identico, qui il comportamento di Grey), quanto auspicata dall’impaziente spettatore. A parte però il vago sentore moralizzante e giudicante esplicitato dal trauma di cui sopra, il film della Taylor-Johnson, presenta qualche altro difetto non trascurabile. Se infatti Dakota Johnson appare perfettamente a suo agio ed è persino in grado di declinare in varie sfumature ingenuità, naïveté e desiderio di scoperta, lo stesso non si può dire del suo partner, un Jamie Dornan sempre intento ad aggrottare le sopracciglia e prodigarsi in quello sguardo torbido valido (si fa per dire) per esercitare il suo dominio nella stanza dei giochi, così come per confessare abusi subiti in tenera età. Certo, bisogna ammettere che non era facile incarnare questo emblema idealizzato di un ipotetico neo capitalismo rampante, la cui natura resta tutta da definire. La multinazionale Grey si occupa infatti di telecomunicazioni, occasionalmente di agricoltura in Africa, orientativamente di qualsiasi cosa possa procurare profitto, ma soprattutto il suo amministratore non si vede mai al lavoro (giusto qualche telefonata), ma di certo se ne vedono ampiamente i frutti: un lussuoso appartamento, una serie di eleganti completi e cravatte grigie, un elicottero, una sfilza di automobili in garage. Tutti oggetti che contribuiscono, in una lettura a dir poco semplicistica se non risibile, a renderlo irresistibile, nonostante il suo sguardo poco convincente.
Ma la regista, se pare aver gettato troppo presto la spugna sul versante della direzione attoriale, si impegna di contro notevolmente nel tentativo di metaforizzare la tensione erotica tra i due, attraversando lo spazio con movimenti rapidi, forieri talvolta di sviluppi quasi thriller, mentre cerca di cesellare una storia sin troppo elementare giocando con gli elementi scenografici verticali, dal grattacielo ai vari velivoli (elicottero prima, biposto poi) e trovando infine in un intelligente utilizzo dell’ascensore – elemento scenico deputato ad attraversare questa insistita verticalità – l’apertura e la chiosa del suo film. Certo qualche caduta di gusto c’è e si fa sentire, con scarti di tono che dall’algido (gli appartamenti, gli abiti di lui) scivolano nel patinato (la terribile inquadratura che dal letto con i due amanti si innalza sino allo specchio che li osserva dal soffitto, lui che dopo l’amplesso suona Chopin sul lucido piano a coda del suo lustro appartamento con vista panoramica), mentre qualche battuta di dialogo (“Benvenuta nel mio mondo”) finisce per provocare più risatine che eccitazione.
Siamo lontani dunque dal patinato ruspante dell’Adrian Lyne di 9 settimane e 1/2, e probabilmente se Cinquanta sfumature di grigio, a prescindere dal suo valore strettamente cinematografico, riesca o meno a rappresentare l’erotismo di questi anni dieci del XXI secolo, lo sapranno dire solo i posteri. Noi, l’erotismo sul grande schermo, era davvero da troppo che non lo vedevamo.
[Thank you, Quinlan!]
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