Se ci richiedessero una filmografia sull’olocausto armeno, potremmo partire da Mayrig ed il suo seguito Quella strada chiamata paradiso, due bei film dei primi anni Novanta di Henri Verneuil, con Omar Sharif e Claudia Cardinale ma poco conosciuti in Italia. Potremmo poi ricordare Ararat (2002) di Atom Egoyan, con Charles Aznavour ed infine La masseria delle allodole (2007) di Paolo e Vittorio Taviani, lungometraggio tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Antonia Arslan, autrice pure del successivo La strada di Smirne.
Esistono, inoltre, alcuni interessanti documentari realizzati da cineasti di origine armena, italiani e francesi, ma ritengo si possa approfondire autonomamente la ricerca sul portale della Comunità Armena in Italia.
In attesa che si manifesti un’opera cinematografica “paradigmatica” sulla questione armena, eccoci a parlare de Il padre (The Cut, presentato a Venezia 71 non senza risonanza mediatica) del pregiato regista turco Fatih Akin (nato ad Amburgo e residente in Germania), noto per La sposa turca, Ai confini del paradiso e Soul Kitchen.
Un punto di vista oltremodo intrigante, quello di Akin, proprio perché proviene da un intellettuale, il cui paese d’origine nega con forza di riconoscersi come il primo responsabile della morte dei due o tre milioni di Armeni trucidati in varie ondate (1894-1896), nel corso del primo conflitto mondiale (1915-1916), e fino al 1922, nonché della diaspora provocata da quella che oggi definiremmo una spietata operazione di “pulizia etnica”. La popolazione armena, otto milioni circa di persone che occupavano l’est della penisola, di antica religione cristiana, ricchi imprenditori ed intraprendenti professionisti, artigiani e mercanti, potenziali alleati dei nemici russi, costituiva di per sé un capro espiatorio ideale, anche alla luce della scomoda presenza curda nelle adiacenze di quei territori.
[youtube]https://youtu.be/D_9sz2DReyY[/youtube]
La vicenda narrata in The Cut (nelle sale italiane dal 9 aprile) prende avvio proprio nel 1915 a Mardin, cittadina del sud-est anatolico non distante dal confine siriano. La guerra in corso sta accelerando la dissoluzione dell’Impero Ottomano, alleato di Germania e Austria, ma già minato al suo interno dalla rapida crescita del movimento dei Giovani Turchi, i quali puntano alla rapida “modernizzazione” del paese ed all’omologazione razziale e religiosa. La polizia turca rastrella i giovani armeni per destinarli al fronte o nei lavori forzati; in realtà, si tratta di un vero e proprio internamento, cui non è estraneo l’intervento di militari tedeschi esperti nella progettazione dello sterminio di massa. Tra i deportati c’è anche il fabbro Nazaret Manoogian, (nomen omen) che viene così separato dalla sua famiglia. L’uomo, intepretato dall’attore franco-algerino Tahar Rahim, riesce fortunosamente a sopravvivere ma, ferito alla gola, perde l’uso della parola.
La sua famiglia, insieme all’intera popolazione di Mardin, viene costretta alla cosiddetta “marcia della morte” nel deserto siriano, capitolo decisivo del genocidio degli Armeni, durante il quale la fame e le malattie, le fatiche fisiche e l’esposizione alle impervie condizioni climatiche, le brutali violenze e le esecuzioni sommarie, in parte “appaltate” agli inferociti curdi delle zone limitrofe, assetati di sangue e di bottino, causeranno il massacro della maggior parte dei deportati.
Unica via di salvezza: l’islamizzazione forzata.
Nazaret, rifugiatosi ad Aleppo, in Siria, scopre che le sue due figlie gemelle sono ancora in vita; inizia perciò la sua complicata ricerca attraverso gli orfanotrofi della Mesopotamia e del Medio Oriente, ritrovando le loro tracce in Libano e, da lì, grazie al supporto delle comunità armene locali, a Cuba e negli USA, rischiando più volte la propria vita, a Minneapolis e nel Dakota del Nord.
Il “taglio” del titolo originale non si riferisce soltanto alla menomazione fisica che procurerà al protagonista il mutismo di buona parte del film, quanto piuttosto alla rescissione delle proprie radici familiari, culturali e religiose. La perdita della parola può essere intesa come il rifiuto della stessa causato dalla violenza, sparsa a piene mani nel corso del racconto (si dia una scorsa ad Il male di vivere di Montale ed Alle fronde dei salici di Quasimodo) al punto da far risultare ridondante la similitudine costituita dall’intermezzo chapliniano de Il monello.
Chiara, dunque, l’intenzione dell’autore di denunciare il “male” che si annida in ogni essere umano, anche se affermare che “il male è ovunque” è un modo di defilarsi, di evitare di assumere una posizione netta e coerente rispetto al genocidio in oggetto. Ecco perché tende a risultare stucchevole la scena del ferimento del bambino durante la sequenza dell’abbandono di Aleppo da parte dei turchi, presi a male parole, sputi e sassate dai superstiti armeni.
Da quel momento in poi, infatti, il film si trasforma in qualcos’altro: l’epica dell’olocausto e la tragedia di un intero popolo cede il passo all’avventura di un uomo qualunque, alla ricerca dentro e fuori di sé di una nuova identità ed a poco a poco…Il padre assume i contorni di un drammatico road movie che con l’arrivo negli USA adotta addirittura i canoni del western, con tanto di sparatorie e fughe sui treni.
Tale discontinuità di genere si ripercuote sulla qualità complessiva dell’opera, dal respiro ampio ma dominata da un meccanicismo assolutamente prevedibile. La prima parte, sebbene piuttosto didascalica, è quella più riuscita, anche se il progressivo isolamento vocale di Nazaret non giova alla performance di Tahar Rahim, già ammirato protagonista de Il profeta di Jacques Audiard.
[youtube]https://youtu.be/OizNXB2BBjY[/youtube]
Con The Cut, Fatih Akin conclude la trilogia su “L’amore, la morte ed il diavolo”, iniziata con La sposa turca e proseguita con Ai confini del paradiso, mostrando di cavarsela discretamente sia nella gestione del cast (assortito ed efficace) che dei ben 138 minuti di kolossal che si snodano, nel rispetto dei canoni visivi tradizionali, attraverso svariati e grandiosi paesaggi, collegando due continenti così lontani e diversi. Purtroppo, lo stile del regista turco tende ad annullarsi a beneficio dell’intreccio ed il finale di speranza non può bastare a riscattare la trattazione di un evento storico così complesso e rilevante.
Qualche anno più tardi, infatti, questo efferato genocidio di cristiani avrebbe dato la stura alla follia criminale di Hitler che, al cospetto dei suoi luogotenenti poco persuasi dalla “soluzione finale” della questione ebraica, avrebbe esclamato: “Qualcuno al mondo si è accorto dello sterminio degli Armeni?”.
+ There are no comments
Add yours