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La timidissima Roberta (Francesca Golia, “La grande bellezza”, “La Bella Addormentata”), cresciuta in una famiglia “attivamente”, volontariamente distante dalla ragazza e da suo fratello, divorata da un vuoto interiore che la fa diventare invisibile nel momento in cui non riceve attenzione.

L’ansioso, fragilissimo Massimo (Pierpaolo Spollon, “il giovane Montalbano”, “Una grande famiglia”, “Terraferma”, “Leoni”), nato in seno ad una famiglia che ha posto ingiustamente su di lui grandi e pressanti aspettative, diviene invisibile nel momento in cui riceve la più vaga attenzione o si ritrova ad affrontare una qualsivoglia prova.
Due storie di sin troppo comune follia, due vite di invisibilità psicosomatica forse destinate a sfiorarsi senza toccarsi…

Presente, in un rapidissimo e gradevole cameo, Rolando Ravello (Diaz, Almost Blue) nel ruolo di Vincenzo, un ammiratore di Roberta dai metodi spicci e comportamento borderline, altra dimostrazione disperata del teorema del porcospino.

Grazie al crowdfunding di una campagna di sessanta giorni che ha permesso la raccolta di diecimila euro Pietro Reggiani (autore del pluripremiato L’estate di mio fratello, realizzato fra il 1998 e il 2005) torna alla regia con un film indefinito, etereo, leggero e che tuttavia cerca di essere pregno di significato, di offrire una disamina dolceamara su un fenomeno attuale usando lo strumento del realismo magico inserito in un mondo di speed date e reality show.

[youtube]https://youtu.be/Ar8PKByfagA[/youtube]

Purtroppo il film, che potenzialmente poteva dire molto ed in modo molto interessante, non riesce appieno a completare la sua traiettoria perdendo grinta lungo la strada: “La dolce arte di esistere” ruba qualche risata, qualche ghigno, può divertire in diversi momenti ma non prende mai il cuore, non coinvolge mai realmente.

La trama si muove a tentoni tra alcuni personaggi secondari che nascono e muoiono rapidamente come macchiette, mai realmente incisivi o comunque non abbastanza sviluppati da risultare interessanti, cercando una ispirazione tra mille potenziali strade, nessuna delle quali battuta adeguatamente: l’incedere lento attraverso miniscene modulari e la voce fuori campo di Carlo Valli (troppo amato dal regista e quindi troppo, troppo usato), alla fine ridondante, non permettono al film di decollare e anzi lo fanno impantanare nel letale “dove vuole andare a parare? Quale tono vuole avere?”.

Forse come corto o parte di un film a episodi “La dolce arte di esistere” avrebbe offerto di più, avrebbe tolto quel retrogusto da gran bel film di laurea in cinematografia e null’altro. Onore al tentativo ma non alla realizzazione.

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