L’ennesimo tentativo di far rinascere la storia avviata da Cameron nel 1984 finisce schiacciato in Terminator Genisys dai paradossi temporali, stretto fra una morsa di rimandi nostalgici e facili catastrofismi.
Corpo a corpo contro il tempo
Nel 2029 la guerra fra gli uomini e le macchine ribelli di Skynet sta per volgere a termine grazie alla controffensiva guidata dal carismatico John Connor. Per rispondere all’attacco, le macchine decidono di inviare indietro nel tempo un cyborg dalle sembianze umane programmato per uccidere la madre del capo dei ribelli e cambiare il corso del tempo. Sarà il braccio destro di Connor, Kyle Reese, a compiere lo stesso viaggio per cercare di salvare la vita di Sarah Connor e il destino dell’umanità. [sinossi]
“I’ll be back” promette dal 1984 la granitica macchina da guerra inventata da James Cameron. Una promessa mantenuta ciclicamente ogni decennio con una serie di sequel che portano avanti le imprese di Sarah e John Connor contro o a fianco i vari modelli sempre più indistruttibili e letali di cyborg nella guerra fra umani e macchine. A parte la diretta filiazione gestita da Cameron in persona (Terminator 2 – Il giorno del giudizio), capace di incassare più di 500 milioni di dollari nel lontano 1991, i vari tentativi di rivitalizzare e dare un seguito alla sua sfida lanciata al mondo della fantascienza e degli effetti speciali alla fine del XX secolo hanno finito col soccombere sotto questa eredità pesante come l’acciaio degli scheletri dei vari Terminator.
Negli anni Duemila, dopo che film come Matrix avevano stabilito un nuovo standard estetico agli effetti visivi, i temi distopici delle macchine pensanti e gli scenari cyberpunk legati a cyborg e salti temporali risultavano già fuori tempo. Nessuno dei precedenti tentativi di far partire una saga omogenea era andato a buon fine: né la versione di pura action di Jonathan Mostow (Terminator 3 – Le macchine ribelli, 2003), né quella nera e post-apocalittica di McG (Terminator Salvation, 2009).
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Questo nuovo Terminator Genisys ci riprova con una sintesi tra remake, reboot e operazione nostalgia, tentando di trasformare Terminator in un vero e proprio franchise commerciale, battendo un sentiero a metà strada tra il Batman reinterpretato da Christopher Nolan e i nuovi Star Trek di J.J. Abrams. Da quest’ultimo, in particolare, prende in prestito i giochi coi paradossi temporali e la possibilità di riavvolgere e di giustapporre le continuity fra i vari universi paralleli. Attraverso questo espediente, Terminator Genisys torna alle origini e si intreccia in modo diretto con il capostipite. Dopo un incipit lungo quanto i titoli di testa che dilata ed enfatizza tutto quanto il Terminator di Cameron demandava a una semplice didascalia, il lavoro di Alan Taylor rimette in scena quasi shot-by-shot le immagini del film originale, salvo poi contaminarlo con nuove piste narrative e altre incursioni dal futuro. E siccome “in principio era Schwarzy”, si permette anche di ricollocare al suo posto e nelle sue sembianze di un tempo il corpo giovane e implacabile del T-101 per farlo scontrare con quello meno giovane ma al servizio degli umani del T-800.
Corto circuiti come questi, per quanto parossistici e autoreferenziali, sono la parte più divertente di un film che decide troppo presto di abbandonare gli anni Ottanta e la parafrasi ludica per darsi al catastrofismo più elementare (la pulsione distruttiva che ha investito la città di San Francisco e il Golden Gate negli ultimissimi anni richiederebbe un’analisi a sé). Una volta capito che il Genisys del titolo non è solo un modo per indicare la via che torna alle origini ma anche il nome di un ennesimo software progettato da Skynet per dominare il mondo, l’entusiasmo cala e un film ben più piatto e convenzionale prende corpo davanti a noi. Che non ci siano molte altre idee a guidare la storia, lo si capisce anche dalla quantità di discorsi e di battute ripetute sul destino del mondo, dalla bassa intensità della tensione sessuale fra Sarah Connor e Kyle Reese o dal fatto che le uniche parentesi autoironiche si affidino completamente ad Arnold Schwarzenegger e al suo essere “vecchio, ma non obsoleto”.
Un discorso a parte lo merita infatti il corpo sempre più iconico di un Arnold ormai post-politico e post-cinematografico. Padre putativo della saga e di quel che resta di essa, Arnold ha un ruolo marginale ma necessario a mantenere una continuità con i primi film: una sorta di nume tutelare che sembra continuamente cercare di riportare affettuosamente sulla giusta via il figlio vivace ma scombinato. A 67 anni può permettersi di ottenere il massimo risultato dal minimo sforzo semplicemente attraverso un sorriso forzato o esibendo i capelli grigi. È lui l’unico e il solo The Terminator. E non c’era certo bisogno di un altro film per ricordarcelo.
[Thanks, Quinlan!]
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