Il nemico invisibile_locandina

Con Il nemico invisibile, Paul Schrader dirige un thriller teoricamente perfetto per i suoi temi: ma sul risultato influiscono, negativamente, i pesanti rimaneggiamenti subiti in fase di montaggio.

Il nemico intuibile

Evan Lake, veterano della CIA, porta nel corpo e nell’anima i segni dell’incontro, un ventennio prima, col terrorista Muhammad Banir. Quest’ultimo, da tutti creduto morto, sembra ora aver lasciato dietro di se una traccia, spingendo Lake all’azione. Ma l’agente è affetto da una malattia che gli lascia poco tempo, così come ne rimane poco al suo antagonista… [sinossi]

Dopo il discusso ma fondamentale The Canyons (poco compresa celebrazione funebre della Mecca del Cinema, e della sua illusorietà) Paul Schrader sembra reimmergersi, con questa sua nuova regia, nei territori del cinema di genere. Lo fa, il regista-sceneggiatore simbolo della New Hollywood, con un thriller tanto moderno nella confezione quanto classico nelle sue basi portanti, con al centro una storia che sembra perfetta per la poetica di Schrader: una vicenda la cui natura “autunnale” (due uomini al crepuscolo della vita, entrambi consapevoli di avere poco tempo davanti a sé, trovatisi a regolare un conto in sospeso risalente a un ventennio prima) crea un interessante contrasto con la patina tecnologica del film, la dinamicità della sua messa in scena, il palcoscenico “globale” (dall’Africa del prologo, agli USA, fino alla Romania) su cui la vicenda si muove. Viene istintivo paragonare questo Il nemico invisibile al recente Blackhat di Michael Mann: in entrambi i casi, siamo di fronte ad autori che sono stati protagonisti dei decenni passati del cinema statunitense, entrambi attualmente in una fase, commercialmente, poco fortunata della carriera; in entrambi i casi, abbiamo opere che prendono di petto il genere (nella sua concezione più moderna) per piegarlo, o tentare di farlo, ai temi prediletti dei rispettivi autori.

Di fatto, tuttavia, e al netto di risultati commerciali che si configurano come fatalmente simili, le analogie concettuali tra le due opere non si traducono in una simile riuscita artistica. Il film di Schrader, nato da una sua sceneggiatura, ma la cui regia era stata inizialmente affidata a Nicolas Winding Refn (rimasto nel progetto come produttore esecutivo) sembra un catalogo di temi e suggestioni rimaste non sviluppate, involute, presenti solo in potenza tra le pieghe di un thriller eccessivamente convenzionale. Non resta difficile capire, guardando il film, perché il regista (insieme allo stesso Refn, e ai protagonisti Nicolas Cage e Anton Yelchin) abbia pubblicamente disconosciuto il risultato finale, sostenendo che il montaggio del film (realizzato autonomamente dai produttori) non rispetti quello che era il suo iniziale progetto.

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Nell’ora e mezza di durata de Il nemico invisibile, si notano sprazzi della poetica di Schrader, frammenti dei suoi temi ricorrenti (la solitudine, l’alienazione, il peso del passato, l’angoscia per un futuro incerto) che tuttavia assumono una forma compiuta solo a tratti; informando di sé poche, isolate sequenze. Se queste ultime (si ricordi un notturno Cage seduto su una panchina in una Bucarest ostile e ormai incomprensibile, o il primo confronto, nel segno del non detto, tra i due antagonisti) mantengono una loro innegabile forza, è il contenitore nel suo complesso a non funzionare. Non ci si libera della sensazione di star guardando un film pesantemente rimaneggiato, forse stravolto (ma non ci è dato saperlo) nella sua stessa concezione.

Si resta perplessi dall’utilizzo convenzionale, e del tutto superficiale, della malattia da cui il protagonista interpretato da Cage è afflitto, dallo spreco di un tema fecondo (e assolutamente nelle corde del regista) come quello della memoria, da un personaggio che lascia emergere solo a tratti, e in modi puramente meccanici, gli effetti del graduale declino psico-fisico che attraversa. Similmente, colpisce l’analoga inconsistenza del villain (l’attore svedese Alexander Karim), ridotto a un’innocua figurina inconsapevole, assolutamente inadeguato quale antagonista in una vicenda con queste premesse. Infine, un altro dei personaggi che pareva avere un peso determinante nello script (l’ex compagna del protagonista, col volto di Irène Jacob) scompare incomprensibilmente a metà film, lasciando anch’esso inutilizzate le suggestioni, e le potenzialità, che portava con sé. Resta particolarmente difficile, anche, valutare le varie prove attoriali, vista l’evidente menomazione che i personaggi (e, verosimilmente, lo stesso tempo in cui ognuno di loro resta in scena) hanno subito in fase di montaggio: la stessa prova di Cage, per come il carattere emerge dal film, sembra a tratti eccessivamente sopra le righe, ma è un’impressione forzatamente, e inevitabilmente, parziale.

Restano, di questo Il nemico invisibile, sprazzi di classe registica (ma questo, parlando di uno dei più importanti cineasti viventi, era certo prevedibile), l’enigmatica luce, sul volto di Cage, di un calvario e di un’eclisse solo intuibili, alcuni guizzi di tragedia (tra questi, l’ultima sequenza) in una struttura narrativa sfilacciata e improbabile. Resta, certo, il rammarico per lo spreco di talento, per l’espropriazione di un progetto che avrebbe potuto rappresentare un tassello importante in una filmografia straordinaria, la speranza (forse destinata a restare inappagata) per un ipotetico director’s cut. Un pensiero, forse ozioso: che Hollywood l’abbia voluta far pagare a Schrader, per l’affresco a tinte fosche di The Canyons?

[Thank you, Quinlan!]

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