Un taxi attraversa le movimentate e colorate strade di Teheran. Passeggeri molto diversi tra loro vi salgono e dialogano tra loro e con il tassista, che è lo stesso Jafar Panahi.
“Non posso fare nient’altro che film. Il cinema è la mia espressione e il significato della mia vita”. Bisogna tenere presenti queste parole nell’approcciarsi a tutto l’ultimo cinema di Jafar Panahi, ancora sotto “tutela” da parte del regime iraniano che gli impedisce per legge di usare la macchina da presa e che può imprigionarlo in qualsiasi momento, a discrezione. Eppure, allo stesso tempo, di fronte alla gioia di sapere che, con ogni mezzo a sua disposizione, Panahi continui a trovare un modo per girare film, non bisogna comunque mai rinunciare – anche al cospetto delle sue opere – all’esercizio della riflessione critica.
This is Not a Film e Closed Curtain, infatti, avevano un valore e una ispirazione dolente e commovente che, invece, manca in Taxi Teheran, nuovo film del regista, presentato in concorso alla 65esima edizione della Berlinale.
Un po’ come nel recente Tales di Rakhshan Banietemad, vincitore del premio per la migliore sceneggiatura all’ultima edizione del Festival di Venezia, e un po’ come da radicata tradizione del cinema iraniano degli ultimi trent’anni, Panahi in Taxi Teheran opta per una storia corale, mischiando i codici del documentario con quelli della finzione, ma il passaggio dalla dimensione privata del dolore e della reclusione (su cui si reggevano per l’appunto This is Not a Film e Closed Curtain) a quello del pubblico soffrire dei cittadini iraniani finisce per non funzionare.
La scelta di Panahi di riservarsi il ruolo del protagonista che, alla guida di un taxi, fa da Caronte traghettando i suoi passeggeri nella Teheran odierna è di per sé apprezzabile, se non addirittura geniale nella sua semplicità, ma finisce poi per diventare proprio il maggior limite del film. Infatti, invece di mettere gli altri al centro della scena, dedicandosi alle loro storie, Panahi sceglie di rimanere il motore immobile del racconto e si concentra soprattutto sulle reazioni che provoca nel prossimo, da chi lo riconosce a chi gli chiede consulenze registiche e consigli vari. Va a finire perciò che tutto il mondo narrativo di Taxi Teheran esiste solo in funzione del suo protagonista assoluto e del suo compiacimento. Sì, perché Taxi Teheran è autoreferenziale non nel modo privato e individuale di This is Not a Film, quanto per via di un citazionismo eccessivo, che è funzionale al riconoscimento della figura pubblica del regista, quale aperto contestatore del regime. E proprio perché il baricentro è spostato interamente a suo favore, Panahi allora finisce per trascurare o per tratteggiare svogliatamente i vari personaggi che accoglie a bordo, a partire dalla donna che accompagna il marito ferito, il cui dramma finisce in burla. E in questo tipo di racconto di impianto corale, se cede la scrittura, cede tutta l’architettura del film.
Certo, ritornando al punto di partenza, non si poteva forse chiedere a Panahi un ulteriore dramma dell’isolamento e, allo stesso tempo, è assolutamente lecito da parte sua ‘sentire’ la necessità della commedia; anzi addirittura va identificato in Taxi Teheran il titolo che segna il riscatto pubblico del suo regista, che torna in piazza, per le strade e che dunque – pur riprendendo tutto attraverso i vetri dell’auto – torna ad aprirsi all’esterno. Eppure, nonostante ciò, Taxi Teheran non riesce mai a ergersi a satira sociale o a riflessione sulla società iraniana, come invece gli era riuscito, anche solo per fare un altro esempio recente, in Offside (2006). Lì si partiva da una prospettiva precisa e proprio quel punto d’osservazione privilegiato (un gruppo di ragazze che cercava in ogni modo d’andare allo stadio) permetteva di far esplodere tutte le contraddizioni di un regime schizofrenico, violento e repressivo. Stavolta invece è l’assertivo atto stesso del filmare per le strade ad avere senso, più che il suo essere funzionale a un’autentica ispirazione. Probabilmente, allora, Taxi Teheran è un film di passaggio, di transizione, e anche per questo motivo ci auguriamo di poter vedere al più presto che percorsi seguirà il futuro cinema di Panahi e quali nuove soluzioni troverà per aggirare gli assurdi divieti cui è sottoposto.
[Thank you, Quinlan!]
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