Non è facile esordire nell’asfittico panorama del cinema italiano contemporaneo. Bisogna ottenere fondi pubblici, il più possibile, di quelli nazionali, locali ed europei, e poi si deve offrire ai produttori qualche garanzia, del calibro di un interprete di richiamo o un bestseller quale punto di ispirazione per lo script, in grado di allettare lo spettatore-lettore avido di cultura. Naturalmente il talento del neoregista è importante, ma le cose sopraelencate lo sono di più. Il film-prodotto, d’altronde, va prevenduto.
Presenta molte delle preziose garanzie sopraelencate già sulla carta L’attesa di Piero Messina, primo film italiano in concorso a Venezia 2015. Ispirato a “La vita che ti diedi” di Pirandello (non c’è male come bestseller di partenza), il film mette in scena la dolorosa elaborazione del lutto di una madre (ecco la star internazionale: Juliette Binoche) che accoglie la fidanzata del figlio nella sua sontuosa magione siciliana, proprio nei giorni che precedono la Pasqua. La donna, però, non riesce a trovare il coraggio per confessare all’aspirante nuora, che il ragazzo è morto. Tra i due personaggi femminili si va creando dunque, man mano, un forte legame, che trae origine per entrambe dal desiderio di trovare un valido sostituto “all’assente”.
Poco interessato alla sua storia e ancor meno alla psicologia dei personaggi, Piero Messina si dedica però in L’attesa a squadernare il tema portante esplicitato dal titolo, producendo una serie inarrestabile di belle immagini (davvero notevole la fotografia firmata da Francesco Di Giacomo) che hanno per protagonisti ora i volti, ora gli oggetti, inquadrati sempre con rapita ammirazione e un’alta dose di narcisismo. Questa prassi è dichiarata d’altronde fin dall’incipit, con una splendida inquadratura d’apertura utile da un alto a introdurci in un universo in cui il culto religioso si mescola con la tradizione popolare e i suoi rituali, dall’altro a creare una similitudine tra la morte e resurrezione di Cristo (siamo a Pasqua, d’altronde) e l’elaborazione del lutto messa in opera dalla tormentata madonna-Binoche.
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Il problema però è che in L’attesa gli incipit sono più d’uno, tutti pregni del medesimo afflato estetico, meno di un senso che aiuti a decifrare la storia e le sue derive intime. Sembra di assistere ad un lungo rebus enigmistico – e la sensazione pervade l’intera pellicola – dove a “canterani con i marmi dalle venature grigie”, abat-jour, tendaggi e specchiere settecentesche è affidato il compito di fornire tutti gli indizi necessari alla soluzione di un mistero che in fin dei conti non interessa poi tanto al regista, e dunque nemmeno allo spettatore.
Già aiuto regista di Paolo Sorrentino, Messina si ritaglia anche il tempo, nei primi minuti del film, per omaggiare il maestro e il suo Le conseguenze dell’amore, con l’immagine di un tapis roulant aeroportuale animato da personaggi-ombre cinesi e accompagnato da musica d’ordinanza.
L’attesa sembra però poi prepararsi al decollo quando inizia a profilarsi l’amicizia tra le due donne, ma i dialoghi non paiono intenzionati a fornire profondità al loro rapporto né alla vicenda tutta. Eppure di materiale da indagare ce n’era, bastava anche solo sviluppare la dialettica tra le insicurezze dettate dall’età, gli errori del passato e le vitali pulsioni giovanili. E poi c’è il sempre valido tema del doppio pirandelliano, con le sue derive psicanalitiche tutte da portare alla luce.
Sarebbe forse bastato a Piero Messina, avere al suo fianco dei produttori in grado di consigliarlo su come indirizzare meglio il suo talento e i preziosi ingredienti a disposizione, e se così non è stato, viene da pensare che da un lato Nicola Giuliano, Francesca Cima e Carlotta Calori cercavano soltanto un altro Sorrentino da lanciare sul mercato e verso la stagione dei premi annuali, mentre sull’altro versante, l’autore in erba aveva fretta di esordire e di farci vedere cosa sa fare. Il rapimento estetico di fronte alle belle immagini che L’attesa contiene non è sufficiente però a farne un buon film ed anche l’ottima Juliette Binoche avrebbe meritato di essere meglio diretta, anziché lasciarle fare quegli intensi primi piani di cui tutti già la sappiamo capace.
E così, per utilizzare le metafore pasquali di cui il film si avvale, ogni cosa appare qui ricoperta da un sudario d’eleganza formale, utile a imbalsamare una bellezza senz’anima né nerbo. E quel piatto di avanzi mummificati che fa capolino ad un certo punto del film, si fa presagio di un cinema italiano dalle dinamiche produttive poco lungimiranti. Un cinema asfittico e gattopardesco, dove tutto cambia affinché nulla cambi e alle nuove leve non resta che oscillare tra manierismo e accademismo. Nell’aria, forse, qualcosa si è davvero fermato.
[Thank you, Quinlan!]
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