L’Ostia sconsacrata
1995, Ostia. Vittorio e Cesare hanno poco più di vent’anni e non sono solo amici da sempre: sono “fratelli di vita”. Una vita di eccessi: notti in discoteca, macchine potenti, alcool, droghe sintetiche e spaccio di cocaina. Vivono in simbiosi ma hanno anime diverse, entrambi alla ricerca di una loro affermazione. L’iniziazione all’esistenza per loro ha un costo altissimo e Vittorio col tempo inizia a desiderare una vita diversa: incontra Linda e per salvarsi prende le distanze da Cesare, che invece sprofonda inesorabilmente. Si ritrovano qualche tempo dopo e Vittorio cerca di coinvolgere l’amico nel lavoro. Cesare, dopo qualche resistenza, accetta: sembra finalmente intenzionato a cambiare vita, frequenta Viviana (una ex di Vittorio) e sogna di costruire una famiglia insieme a lei. Ancora una volta però il richiamo della strada avrà la meglio sui suoi propositi…
Prima di tutto c’è Ostia, quella propaggine di Roma che Roma non considera neanche tale, bonificata dalla malaria solo dopo l’Unità d’Italia e diventata nel Novecento la meta delle “domeniche al mare” della piccola e media borghesia capitolina. Un non luogo attorno al quale è cresciuta una popolazione sottoproletaria, imbastardita, mix caotico di migrazioni varie, dal meridione come dal terzo mondo. L’Ostia narrata da Pier Paolo Pasolini in un passaggio di Ragazzi di vita, e poi trasposta sullo schermo da Sergio Citti, prima in Ostia (1970) e poi in Casotto (1977). L’Ostia dell’idroscalo, dove fu trovato morto Pasolini la mattina del 2 novembre 1975. L’Ostia di Claudio Caligari.
Si apre su un’autocitazione che centra subito il centro del discorso, Non essere cattivo, terzo e tragicamente ultimo film di Caligari: Cesare corre verso il pontile, raggiungendo Vittorio, che sta mangiando un cono. La mente cinefila corre indietro di trent’anni, ad Amore tossico e a quel “ma come, dovemo svolta’ e te te piji er gelato?” entrato oramai nella memoria collettiva. Almeno in quella dei pochi che nel corso dei decenni hanno continuato a seguire le traiettorie di uno dei registi più sottostimati (e sfortunati) del cinema italiano. Trentuno anni, e solo tre film all’attivo: dopo le reazioni entusiastiche che accompagnarono l’esordio, Caligari ripiombò in un silenzio produttivo assordante. Promesse di film in partenza, soggetti prima accettati e poi scartati, ma nulla. Quattordici anni dopo, nel 1998, eccolo tornare dietro la macchina da presa con L’odore della notte, presentato a Venezia – come Amore tossico – e subito dimenticato. Ora, quando oramai Caligari non c’è più, sempre al Lido approda Non essere cattivo, ospitato dal Fuori Concorso della Mostra. Gli applausi sui titoli di coda sono stati molti. Tutti, purtroppo, tardivi.
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Se Ostia è ancora una volta l’epicentro della narrazione di Caligari, non è per pretesa snobistica o vacua appropriazione di un ipotetico neorealismo contemporaneo: si tratta di una scelta di campo, una netta presa di posizione politica ed etica. In Non essere cattivo Roma è solo evocata, come se si trattasse di uno spettro incombente ma anche effimero, privo di consistenza: se ne parla per il trasporto in macchina di una partita di eroina, e per un appartamento ai Parioli nei quali si potrebbe entrare senza difficoltà, se solo lo si volesse. Ma Cesare e Vittorio non escono in realtà mai dal loro microcosmo, e lo stesso vale per i loro compagni di scorribande, che non meritano neanche il nome proprio: il brutto, il grasso, il lungo, il corto. Nessuno esce da Ostia, perché non ci sarebbe comunque nulla ad aspettarli lì fuori. L’Italia è finita, si possono solo vagheggiare viaggi su uno yacht, per poi tornare però bruscamente alla realtà: “Cesare, non guarda’ troppo il mare, che ti vengono i pensieri”.
Cesare e Vittorio, il primo segnale di un film che lavora con rigore e precisione sulle dicotomie: i due amici fraterni, costretti per la prima volta a scegliere il proprio posto nella società, pur inseguendo le stesse ambizioni (il disperato tentativo di avere una famiglia), ma anche le rispettive compagne, Viviana e Linda; il lavoro e la microcriminalità; la notte da stonare fino alle estreme conseguenze e il giorno, dominato da un vago ciondolare in attesa di qualche colpo da piazzare.
Caligari domina il film con una mano sapiente, dosando gli ingredienti da somministrare al pubblico. L’euforia della prima ora è drogata, slabbrata, incoerente e sfrenata, come gli occhi a palla spalancati aperti dei due amici. Una prima parte al fulmicotone, rabbiosa e a perdifiato. Furente, come un Cesare ingabbiato in una società che non può contenerlo, ma non ha neanche alcuna voglia di gestirlo; abbandonato al suo destino, come uno spicchio di Roma con troppo sole a smascherare lo sporco che ne intasa le fenditure. Non essere cattivo parte come un treno, sbaraglia tutto, costringe lo spettatore a inseguirlo prima che fugga definitivamente via.
Prima che capisca, al di là di tutto, che non esiste fuga. I giri allora sono sempre gli stessi, una festa in cui cercare di intrufolarsi – ma la mise, secondo l’ipocrisia di una società dell’apparenza, non è quella adeguata –, qualche pasticca sparata in bocca mentre si guida, una truffa qua e là per cercare di imbrogliare il datore di lavoro. Lavoro ovviamente occasionale, e senza alcuna reale concretezza. È un miracolo lavorare, nell’Italia degli anni Novanta. L’Italia del miracolo italiano, della Seconda Repubblica, della fine di Tangentopoli. Ma quella di Vittorio e Cesare che Italia è? Fuori dal mondo, da ogni mondo (im)possibile, i due amici possono solo avvinghiarsi l’uno all’altro. Solo quando questo equilibrio viene rotto, com’è inevitabile che sia, tutte le rovine diventano davvero visibili.
Come ogni risveglio dal deliquio lisergico, la seconda metà di Non essere cattivo non corre più, ma si assesta, già rantolante. In attesa dell’inevitabile, forse, ma con animo ancora riottoso. La stasi piomba sullo spettatore come un macigno, la reiterazione, che in un primo momento si tingeva anche di cromatismi ironici, grotteschi come la paranoia allucinata di un drogato, si fa ansiogena. Mortuale. Dolorosa.
Dopo aver descritto l’Italia (o meglio, la Roma) degli anni di Piombo a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta ne L’odore della notte, e il riflusso degli anni Ottanta in Amore tossico, Caligari immerge Non essere cattivo nel cuore pulsante degli anni Novanta, un’epoca ancora troppo sbiadita nell’immaginario collettivo, relegata in un ruolo di secondo piano, e che il cinema ha preferito snobbare. Con una scelta filologica che in pochi avrebbero avuto il coraggio di operare, Caligari non si limita a mettere in scena l’ultimo decennio del XX Secolo, ma lo fa con i modi, i tempi e l’indole della produzione italiana di quel periodo. Più che un film sugli anni Novanta, Non essere cattivo sembra un (grande) film degli anni Novanta. Ne possiede l’urgenza espressiva, l’ultimo rimasuglio di una crudeltà della visione che non dimentica mai l’umanesimo, la vibrante emotività disadorna. Doti che il cinema italiano contemporaneo troppo spesso dimentica, attratto da una pulsione estetica che vampirizza il senso intimo di una storia, e ancor prima di una singola inquadratura. Non c’è nulla di troppo, nel cinema di Caligari, e non c’è nulla fuori fuoco o fuori posto. Tutto ha un senso, dalla scelta delle location all’utilizzo di un linguaggio gergale perfettamente restituito da un gruppo di attori in ottima forma, a partire da un eccellente Luca Marinelli.
Non essere cattivo, come tutte le opere postume (il montaggio è stato terminato dopo la morte del regista), sarà probabilmente destinato a elogi, applausi, lacrime (a volte di coccodrillo); andrebbe invece preso per quello che è, testamento non solo di un grande autore, ma di un “perché” fare cinema. Come tale andrebbe protetto, difeso e promosso. Perché non è da escludere che in Italia circolino altri piccoli Caligari in fieri, come lui costretti a confrontarsi con un’industria cieca, poco intelligente – la mala gestione de L’odore della notte grida vendetta anche a distanza di quasi venti anni – e del tutto disattenta a chi non “fa parte del giro”. Le Ostia del cinema italiano possono essere molte, ed è da lì che bisogna ripartire, tralasciando per una volta i salotti buoni, già grassi ai limiti dell’obesità.
Continuando a seguire la strada che fu di Caligari, quella di un cinema imbastardito eppure carico di una dolcezza mesta e dirompente. Con uno sguardo desacralizzato, e per questo ancora più umano. Non essere cattivo è finora il più bel film italiano visto a Venezia e, forse, dall’inizio dell’anno.
[Grazie, Quinlan!]
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