Angry Indian Goddesses_poster_smallE venne il giorno dell’India! Con Angry Indian Goddesses, il regista Pan Nalin getta sulla scena tutta l’energia, il colore, la ferocia e la sensualità del subcontinente, le sue contraddizioni e il modo in cui si compongono le differenze più scabrose. Definito il primo buddy movie indiano al femminile, il film è sovraccarico di stimoli, mettendo insieme temi come i matrimoni combinati, l’omosessualità, la lotta dei popoli tribali contro i soprusi delle grande compagnie minerarie, la violenza contro la parità di genere, la solidarietà tra donne.

Già, le donne indiane: la sfavillante bellezza muliebre è qui mostrata, ma in modo dissonante rispetto ai consueti stilemi, in particolare in un contesto sessista: come ha dichiarato l’autore di film come Samsara e Ayurveda: art of being, “la quasi totalità dei ruoli femminili nel cinema indiano è un accessorio, un elemento decorativo: devono essere amanti – ovviamente sexy -, madri o sorelle il cui izzat (onore) deve essere protetto dall’eroe di turno”.

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È quindi chiaro, oltre che apprezzabile, l’intento del cineasta originario del Gujarat: contribuire a indurre una società dinamica come quella indiana a reagire al persistere di una visione del rapporto tra i sessi inaccettabile e criminogena – ma nessuno, in Italia, osi puntare il dito accusatore su culture ritenute retrograde: da noi i casi di femminicidio, già tragicamente numerosi, sono in aumento (si parla di 127 donne uccise da uomini nel 2010, 157 nel 2012 e 179 nel 2013).

Ciò utilizzando strumenti interni alla stessa dialettica cinematografica: il film si apre con una sarcastica parodia di Bollywood (Joanna, la bellissima e sofisticata Amrit Maghera, si ribella ai cliché maschilisti vigenti sul set) e chiude citando un classico come “L’attimo fuggente”, a voler infondere fiducia nelle capacità dei diversi strati sociali di cui è composta l’India di comprendere e accettare il cambiamento. Ne è emblema la straordinaria nonna di Laksmi (nome di una divinità hindu, interpretata da Rajshri Deshpande), entrambe dalit, ovvero paria addette alle pulizie della avita magione coloniale nella Goa portoghese dove ha luogo l’azione, la quale non esita a benedire ritualmente una coppia gay che si accinge a celebrare la propria unione.

Mustang (in uscita da noi il 29 ottobre con Lucky Red) della giovane regista turca Deniz Gamze Ergüven, tratta temi simili ma con un registro drammaturgico più coerente ed uniforme: la storia, alla cui base c’è un episodio reale vissuta dalla cineasta, di cinque ragazzine di un villaggio rurale a 600 chilometri da Istanbul la cui esuberante giovinezza viene repressa da familiari e vicini di casa.

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L’ossessione di una nazione che continua ad oscillare tra i dettami laici di Kemal Atatürk e i rigurgiti fondamentalisti del partito al potere, nelle mani di Recep Tayyp Erdoğan, ha come bersaglio la condizione femminile e come obiettivo il suo controllo, da esercitare sia attraverso l’avvio al matrimonio di giovanissime appena uscite dalla pubertà (una volta raggiunto l’accordo tra le famiglie dei nubendi, spesso la sposa viene sottoposta a visita ginecologica per verificare la sua verginità!), sia attraverso la violenza e gli abusi sessuali consumati nell’ombra delle mura domestiche.

La freschezza, l’innocenza, la passione delle ragazze protagoniste della storia hanno indotto la Ergüven a scegliere come titolo del film il nome di questi “cavalli selvaggi, che simboleggiano perfettamente le mie cinque eroine, il loro temperamento indomabile, focoso […] perfino visivamente le loro capigliature ricordano delle criniere, il loro scorrazzare nel villaggio ricorda quello di un branco di mustang…”.

Le avventure in cui si lanciano Lale, Nur, Selma, Ece e Sonay per sottrarsi alla prigione – reale e metaforica – nella quale vengono rinchiuse ricorderebbero quelle dei romanzi di Mark Twain, se non fossimo piuttosto dalle parti della tragedia famigliare, il cui sentore aleggia lungo tutto il film, fino ad esigere la vittima sacrificale. Ne porta per intero la responsabilità non già il presunto comportamento amorale delle fanciulle, ma lo sguardo morboso che un’intera società posa su di loro.

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