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Mostrato alla 26esima edizione del Trieste Film Festival, l’islandese Storie di cavalli e di uomini costruisce, attraverso il rapporto uomo-cavallo, una sardonica e cupa descrizione quasi antropologica dell’umano e della sua ontologica bestialità. In sala dal 19 novembre con PFA Films.

Il mio regno per un cavallo

L’uomo ama il cavallo più di se stesso o, forse, lo considera semplicemente un prolungamento del suo corpo, una parte di sé. La primavera sta arrivando e, con essa, l’impetuosa forza della natura. Non può andare a finire bene. In una valle isolata in Islanda, in cui gli abitanti si tengono sempre d’occhio, amore e morte si intrecciano con inaudite conseguenze per l’intera comunità. [sinossi]

All’interno della già ampia e variegata proposta del Trieste Film Festival si è aggiunta per questa 26esima edizione anche una nuova sezione, Born in Trieste, in cui sono stati selezionati i film che hanno iniziato il loro percorso produttivo proprio qui, nell’ambito degli incontri di co-produzione When East Meets West (iniziativa omologa a quella di altri festival internazionali, tra cui il Torino Film Festival e il suo Torino Film Lab). È un segno inequivocabile dell’importanza e della vitalità di questa manifestazione che ha compreso per tempo come oggi i festival debbano ampliare il concetto di programmazione, includendo in esso non solo la scelta di una rosa di titoli da mostrare, ma anche il sostegno alla nascita di nuovi film e di nuovi autori.

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Diretto dall’esordiente Benedikt Erlingsson, Storie di cavalli e di uomini costruisce, tassello dopo tassello, un mosaico di racconti brevi, di episodi grotteschi e mostruosi in cui a morire sono ora gli uomini, ora i cavalli. Ma se il cavallo cade sempre per mano umana, il contrario non accade mai. Anzi, l’autolesionismo – forse innato – dell’essere umano emerge in Storie di cavalli e di uomini con chiarezza allo stesso tempo lampante, lancinante e delirante. Valga su tutti, in tal senso, l’episodio di un isolano che si lancia col suo cavallo in pieno mare pur di raggiungere una nave russa in cerca di una soddisfazione superalcolica.

Al contrario di quel che spesso accade nei cosiddetti film da festival, realizzati appositamente per essere apprezzati nella breve congiuntura di una manifestazione cinefila e dunque pieni di simpatico ma innocuo humour nero, Storie di cavalli e di uomini finge di fare l’occhiolino allo spettatore e di farsi benvolere, si traveste da film “carino”, quando poi d’improvviso fa sprofondare i suoi protagonisti (umani ed equini) in una nera e cupa brutalità, in un primitivismo che vale quasi da saggio di antropologia fortemente autocritico sugli abitanti di un paese tanto isolato quale è l’Islanda. Prova ne sia, di un tale radicale approccio, l’austerità della messa in scena che preferisce i campi lunghi ai primi piani, le sequenze mute a quelle dialogate e una circolarità del racconto che contribuisce a dare il senso dell’inanità dei personaggi. In tal senso, la parola arriva addirittura a far parte dello sfondo e perde il suo valore di logos per diventare suono tra i suoni, verso gutturale simil-animalesco più che sintomo e segno di razionalità.

Non solo, Storie di cavalli e di uomini che, forse volutamente si contrappone al lezioso e moralista Des hommes et des dieux ragionando al contrario in termini terragni, assurge in effetti alla statura di riflessione complessiva sull’umano e sulle sue debolezze, sull’insensatezza ontologica delle sue azioni e su come ogni singolo gesto possa trasformarsi in un batter d’occhio in una banale e ridicola catastrofe. Il trionfo della morte in Storie di cavalli e di uomini non ha nulla di eroico né di romantico, quanto piuttosto di beffardo e – in tutta la sua stranezza – di quotidiano.

[Thank you, Quinlan!]

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