Giunta alla sedicesima edizione, la rassegna ideata e diretta da Italo Spinelli arriva in porto anche quest’anno malgrado la mancanza dei finanziamenti pubblici che normalmente permettono ai festival di qualità non commerciale di restare a galla: sarebbe stato un vero peccato fare a meno dell’appuntamento con le cinematografie orientali, perché anche stavolta i curatori sono riusciti a mettere insieme un cartellone di tutto rispetto.
Quest’anno il focus è sulla Corea del Sud, con proiezioni di grande interesse come Manshin, di Park Chan-kyong, docufilm sulla vita di una sciamana e sulla società coreana del ventesimo secolo, che ha scelto di sacrificare lo sciamanesimo sull’altare del “progresso”. Il regista esplora le contraddizioni di una delle più dinamiche realtà dell’Asia, che si trova a fare i conti con rituali considerati obsoleti ma che possono aiutare chi li ha praticati per secoli a decifrare i vorticosi mutamenti in corso.
A suo modo, anche K2 and the Invisible Footmen si colloca sulla linea di faglia del confronto tra antico e moderno. Ultima opera dell’infaticabile Iara Lee, cineattivista coreana di origini brasiliane, il documentario descrive il lavoro oscuro e durissimo dei portatori locali che a partire dal 1954 hanno permesso a scalatori di tutto il mondo di mettere piede sulla seconda cima più alta del pianeta.
Meritoriamente Lee, in linea con gli obiettivi del network Cultures of resistance, da lei diretto, dà voce ai senza voce: per una volta, un film di montagna – peraltro splendidamente girato – non si concentra sulle performance individuali di avventurosi alpinisti, ma mostra al pubblico le bocche sdentate e le scarpe sfondate dei portatori pakistani che si caricano sulle spalle attrezzature pesanti tra i 25 e i 40 chili – e con loro, anche il sogno egotico di chi può spendere migliaia di dollari per raggiungere il ristretto gotha dei “conquistatori” del K2 – e fissano corde nel ghiaccio lungo tutto il percorso ascensionale. Senza la fatica disumana di questo manipolo di eroi disperati, infatti, i facoltosi (per gli standard locali) escursionisti non avrebbero alcuna possibilità di arrivare in cima – e con l’alta montagna non si scherza: su 306 scalatori arrivati in vetta al K2, ben 81 sono morti.
I portatori sono pagati pochissimo (700 rupie pakistane a tratta: cento rupie equivalgono a un euro) e lavorano senza assicurazione, ma accettano perché altrimenti non avrebbero altro lavoro, e devono approfittare della buona stagione: sulle cime himalayane si può andare solo tra marzo/aprile e settembre/ottobre.
Il film indaga sui costi occulti delle scintillanti spedizioni d’alta quota: dalla ardua gestione delle tonnellate di rifiuti che i gruppi abbandonano in montagna ai problemi di salute dei portatori, che – malgrado debbano sostenere famiglie povere e numerose – riescono perfino a fare dello humor, come quando uno di loro armeggia con un rasoio e un pezzo di specchio rispondendo: “Mi rado per far contenta mia moglie”, pur sapendo che non la vedrà per settimane.
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Colpisce anche il fatalismo con cui i khurpa (“portatore” in balti, la lingua in uso nel Karakorum) affrontano il loro destino: guardando le pietre poste e mo’ di lapidi lungo il sentiero, alcuni di loro affermano esser preferibile morire a valle anziché in cima, perché almeno così chi passerà di lì potrà pregare per loro…
Iara Lee ha girato K2 and the Invisible Footmen in occasione del 60° anniversario della prima ascensione della vetta, celebrata con la creazione del primo climbing team ufficiale del Pakistan, composto da ex portatori. Un risarcimento postumo e senz’altro insufficiente per il sacrificio di persone come Amir Medi, lasciato senza tenda dalla spedizione italiana del 1954 e miracolosamente sopravvissuto tra le nevi, ma con danni permanenti nel fisico.
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