Regression_locandina italianaAmenábar intreccia generi, realtà e sogno/incubo, rovesciando più volte prospettiva e cercando di trarre in inganno lo spettatore. Disseminato di specchietti per le allodole, Regression funziona discretamente nell’accumulare suggestioni ma crolla come un castello di carta quando deve sciogliere tutti i nodi narrativi e psicologici.

The Exorcism of Hermione Granger

Minnesota, 1990. Il detective Bruce Kenner sta indagando sul caso di una giovane di nome Angela, che accusa il padre, John Gray, di un crimine terribile. Quando John, inaspettatamente e senza averne memoria, ammette la sua colpa, il famoso psicologo Dottor Raines viene chiamato per aiutarlo a rivivere i suoi ricordi, ma ciò che verrà scoperto smaschererà un orribile mistero…

C’è tutto quello che ci si potrebbe aspettare nel thriller orrorifico Regression, ritorno al cinema di genere di Amenábar dopo (la parentesi?) Mare dentro e Agora. Un ritorno, appunto: le dinamiche realtà/illusione/sovrannaturale di Tesis, Apri gli occhi e The Others confluiscono in una pellicola che poggia le proprie fondamenta sul rovesciamento delle attese spettatoriali, delle consuetudini della detection, dell’approccio al Male, alla fede, alla scienza [1]. Queste, in estrema sintesi, le premesse.

Alle premesse/promesse di questa coproduzione ispano-canadese bisogna aggiungere un cast sulla carta assai stimolante: Ethan Hawke, oramai paladino di horror e affini; David Thewlis nei panni del professor Kenneth Raines, psicoterapeuta e convinto sostenitore dell’ipnosi regressiva; la più che graziosa Emma Watson, innocente fanciulla per definizione (e, in questo senso, utilizzata perfettamente dalla Coppola in Bling Ring). Quindi una serie di solidi caratteristi.
L’afflato internazionale segue la scia di pellicole come La madre di Andrés Muschietti. Varrà la pena osservare la resa nelle varie classifiche degli incassi.

[youtube]https://youtu.be/P79SUBRBNh8[/youtube]

Senza dubbio interessante l’utilizzo e il rovesciamento di una serie di cliché tanto cari al cinema statunitense. Il ruvido Bruce Kenner (Hawke), nella sua detection spesso notturna e bagnata dalla pioggia, è accompagnato da una voce narrante sui generis: le registrazioni che ascolta in continuazione, con una prevedibile deriva che lo porta dal perfezionismo all’ossessione, sono uno dei tanti stilemi del cinema noir. Le preziose cassette di Kenner, come da copione, sono uno strumento dalla duplice e ingannevole valenza: pur contenendo preziose verità, possono trasformarsi in diaboliche trappole escheriane.

Con queste registrazioni Amenábar crea un collegamento diretto e continuo tra il poliziotto e l’altra figura di rilievo di Regression, Kenneth Raines (Thewlis). Difficile non ripensare ai noir degli anni Quaranta, all’utilizzo narrativo dell’ipnosi, alla centralità della psicanalisi nella Hollywood d’antan. Anche gli Ottanta/Novanta, gli stessi di Regression, hanno più volte celebrato il ruolo salvifico degli psichiatri – su tutti, il dottor Tyrone Berger di Gente comune. Amenábar cerca di rielaborare queste dinamiche, contrapponendo in un’ottica potenzialmente fertile scienza e religione, smontando pezzo dopo pezzo l’entusiasmo e le verità di Raines, Kenner e delle terapie ipnotiche.

Il regista e sceneggiatore spagnolo intreccia generi, realtà e sogno/incubo, rovesciando più volte prospettiva e cercando di trarre in inganno lo spettatore – non è peregrino il rimando ai «film horror americani degli anni Settanta: L’esorcista, Rosemary’s Baby…». Disseminato di specchietti per le allodole (personaggi, apparizioni, allucinazioni, fuori fuoco e via discorrendo), Regression funziona discretamente nell’accumulare suggestioni – le dinamiche della vita di provincia, l’influenza dei media, lo spauracchio del satanismo, la superbia della scienza – ma crolla come un castello di carta quando deve sciogliere tutti i nodi narrativi e psicologici. La montagna ha partorito un topolino.

Non giovano ad Amenábar l’essersi calato in un (finto) Midwest che tratteggia in maniera didascalica; la scelta di Emma Watson, un miscasting piuttosto evidente aggravato dalla costumista; il poco spazio concesso a Raines e al reverendo Murray; il finale alquanto frettoloso e deludente.

Note
1. «Il termine regressione significa, tra le altre cose, ritorno […] questo progetto significa rivisitare il mistero, ritornare al genere che ha segnato l’inizio della mia carriera con Tesis, un film che esplorava il potere quasi ipnotico che, a volte, la contemplazione dell’orrore può avere su di noi, è proseguito poi con Apri gli occhi, un film allucinatorio e febbrile in cui sogni e realtà coesistono, e che poi è culminato con The Others, un tentativo di recuperare il sapore dei vecchi film di suspense classici». Dichiarazione di Alejandro Amenábar tratta dal pressbook italiano di Regression.

[Thank you, Quinlan!]

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