Con Il ponte delle spie, Steven Spielberg, appoggiandosi a una sceneggiatura dei fratelli Coen, racconta un momento della Guerra Fredda, aggiungendo un nuovo tassello al rapporto tra il suo cinema e la Storia.
Stoiki mugik
1957, Brooklyn. Nel pieno della Guerra Fredda viene arrestato a New York Rudolf Abel, con l’accusa di essere una spia sovietica su territorio statunitense. Per evitare che il processo appaia all’opinione pubblica come una farsa, la difesa di Abel viene affidata allo stimato avvocato James B. Donovan, patriottico padre di famiglia che aveva già preso parte al processo di Norimberga. Ma le ragioni della legge e quelle dello Stato non sempre collimano. Nel frattempo nei cieli sovietici viene abbattuto un aereo spia U-2 dell’aviazione americana, e viene catturato il pilota Francis Gary Powers. Ora l’URSS può proporre agli USA uno scambio di prigionieri, che dovrà avvenire a Berlino. Nella città appena divisa dal muro, però, c’è un altro prigioniero: uno studente universitario di Yale è nelle mani della DDR…
Anno dopo anno, film dopo film, è sempre più chiaro come Steven Spielberg, enfant prodige della New Hollywood (ha meno di venticinque anni all’epoca del thriller on the road Duel, diretto per la televisione e uscito anche in sala su sceneggiatura di Richard Matheson), rappresenti uno degli ultimi baluardi del classicismo statunitense. Il termine neo-classico, a cui il suo cinema viene talvolta associato e che viene spesso pronunciato a mezza bocca, non riesce a dare un senso compiuto alla filmografia di Spielberg: quel muoversi in direzione dell’opulenza hollywoodiana dell’âge d’or non ha mai un reale sapore rétro, non presenta tracce di un calligrafismo nostalgico e fuori dal tempo. L’opera di Spielberg, e questo fin dagli esordi, possiede una potenza cinefila, ma mai passatista. Anzi, il suo è un cinema sempre vivo, pulsante sangue, perfino grondante umori sempre attuali, odierni. La dimostrazione palese di tutto ciò la si può rintracciare con maggiore facilità proprio nei film portati a termine nel Terzo Millennio: nel momento in cui Spielberg sembra guardarsi più alle spalle, tra omaggi alla commedia “umanista” (The Terminal e lo scatenato Prova a prendermi), sci-fi d’antan (Minority Report, ma ancor più La guerra dei mondi, che ritorna a Byron Haskin, Orson Welles e H.G. Wells per cercare coordinate impossibili nel post-11 settembre), incursioni nell’animazione (Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno), e riprese di saghe del passato (Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo), la sua filmografia spalanca gli occhi sulla Storia con una forza per certi versi persino inattesa.
Basterebbe l’inquadratura con cui termina Munich, sulle neonate Twin Towers, per rendersi conto di quale scopo acquisti, nelle mani di Spielberg, la rievocazione di eventi passati. Spielberg è un regista del Novecento, che racconta il secolo in cui ha vissuto. Le uniche eccezioni riguardano il 1839 di Amistad e il 1865 di Lincoln, e non è certo un caso: entrambi i film si concentrano sulla lotta alla schiavitù, passaggio fondamentale per l’ingresso degli Stati Uniti d’America nell’era di una revisione “progressista” della Costituzione.
Un costituzionalista convinto lo è anche l’avvocato James B. Donovan, a cui viene affidato il compito di difendere in tribunale Rudolf Abel, accusato di essere una spia al soldo dell’Unione Sovietica; Donovan lo conferma anche a un agente della CIA inviato con un “consiglio”, quello di non impegnarsi più di tanto nel suo ruolo in aula. Dopotutto Abel è reo confesso, non ha mai provato a smentire di essere un bolscevico, non si è mai neanche lasciato corrompere dalle offerte di collaborazione del governo USA. Ma Donovan, che pure non ha certo simpatie comuniste (il passaggio in cui a tavola spiega ai figli chi siano stati i coniugi Julius ed Ethel Rosenberg è illuminante), sa però che il suo ordine impone che ogni imputato abbia diritto a una difesa seria, approfondita e in rispetto della legge. Su questo dettaglio si apre il primo degli innumerevoli conflitti di cui si compone Il ponte delle spie, ventinovesima regia per il cinema di Spielberg.
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Nella sua raffinata e sempre meno massificata idea di cinema “popolare”, Spielberg non nasconde mai i segni attraverso i quali poter leggere in filigrana il senso di ciò che sta avvenendo sullo schermo. L’esplicitazione, per quel che concerne Il ponte delle spie la si può rintracciare già nella prima inquadratura: Abel, al chiuso di una stanza a Brooklyn, sta componendo un autoritratto. La macchina da presa lo coglie alle spalle, di modo che lo spettatore possa avere solo due visioni del suo volto, quella rimandata da uno specchio e quella del ritratto. Uno sguardo soggettivo e un riflesso di ciò che si potrebbe definire oggettivo: nel mezzo, il “reale”. Un’inquadratura che racchiude al proprio interno non solo una pre-narrazione di ciò che avverrà nel corso del film – Abel è figura duplice per lavoro, eppure estremamente netta e regolare, perfino limpida – ma anche un’intera poetica espressiva. Il reale è sempre la base a cui affidarsi per raccontare, ma non lo si può affrontare se non attraverso una rilettura, un’interpretazione. Lo stesso vale per l’oggi.
Negli ultimi dieci anni il cinema di Spielberg, oramai lontano dall’idea di blockbuster – per quelli concorrono i suoi adepti, anche di generazioni differenti tra loro, come Robert Zemeckis e J.J. Abrams – si è fatto politico come non mai. Il crollo delle Torri Gemelle ha prodotto nel cinema del regista de Lo squalo un cambio di prospettiva che non ha eguali tra i suoi colleghi e amici della New Hollywood: titoli come Munich, War Horse e Lincoln tracciano un percorso etico e filosofico oltre che cinematografico. Il regista che, in una lettura semplicistica molto in voga tra gli anni Ottanta e Novanta, approfittava della retorica per volgerla in una chiave manichea, suddividendo con nettezza il Bene e il Male (discorso valido forse – ma potrebbe essere altrimenti? – per Schindler’s List, ma non certo per il precedente, e oramai quasi dimenticato, L’impero del sole), stratifica il discorso, ispessisce la trama, ribalta di continuo la prospettiva. Un viaggio nello scontro continuo tra l’indole umanista e la granitica potenza della macchina dello Stato. L’homo spielberghensins non ha mai un rapporto risolto con la struttura burocratica delle nazioni, dalla quale non riceve altro che ostacoli: era già così, a ben vedere, in E.T., Sugarland Express, Incontri ravvicinati del Terzo Tipo, Lo squalo. Il meccanismo del Capitale, come di ogni altro ordine sociale, schiaccia l’uomo, lo frustra, lo riduce a ingranaggio. Ma possono cambiare i colori della bandiera, non l’intima necessità dell’umano. Paradigmatico e cristallino l’esempio del viaggio nel cuore della guerra compiuto da Joey, il cavallo baio protagonista di War Horse.
Per rappresentare questo scarto (solo apparente, come si è visto) all’interno della sua filmografia, Spielberg ricorre all’immaginario hollywoodiano: ecco dunque i fotogrammi trasudare memorie di John Ford, William Wyler, Howard Hawks.
È Alfred Hitchcock, a proposito di numi tutelari, a retro-illuminare le prime sequenze de Il ponte delle spie: il pedinamento in metropolitana, così come l’arresto di Abel nella sua stanza d’albergo – con il sovietico che riceve gli agenti della CIA in mutande e canottiera – rimandano direttamente al cinema del maestro inglese, sia per il ritmo che per la capacità di auto-sabotarsi attraverso lo specchio deformante dell’ironia. Un aspetto, quest’ultimo, al quale senza dubbio partecipa attivamente la sceneggiatura scritta da Matt Charman, ma rivista e corretta dai fratelli Coen, che instillano inattese gocce di surrealtà, come nella sequenza dei “finti” parenti di Abel.
Spielberg comprende che per raccontare un conflitto è necessario spostare materialmente il racconto in luoghi diversi, con lingue diverse e sistemi politici diversi, e così Il ponte delle spie vaga dagli Stati Uniti a Berlino, a sua volta (come Abel) città bicefala, con quel muro in costruzione che separerà per quasi trenta anni l’est dall’ovest, dando materia tangibile a una linea invalicabile che vede USA e URSS sui due lati delle barricate. Ma è davvero così diversa quella capitale smembrata e priva di elettricità e riscaldamento dal tepore rassicurante di New York? E sono così opposti i metodi della CIA e del KGB?
Per comprendere le risposte a questi quesiti Donovan, come ogni eroe spielberghiano che si rispetti, deve entrare nell’agone, muovendosi in ambienti estremamente più grandi di lui. Deve sporcarsi, per poter scoprire davvero di non essere sporco. La sua tenuta newyorchese, con il cappotto di marca e l’ombrello, non può sperare di passare indenne l’incontro con la Storia; quell’uomo tutto d’un pezzo (“stoiki mugik”, come lo chiama con rispetto Abel, riportando la mente a un altro frammento di Storia, quello della lotta contro lo zarismo da parte di operai e contadini russi), padre di famiglia cristiano dall’ottimo stipendio, dovrà affrontare il freddo della guerra, e di una Berlino che è terra di conquista per tutti, sovietici, statunitensi e tedeschi dell’est e dell’ovest.
L’uomo normale in condizioni straordinarie non ha più a che fare con alieni o con il fantasma dell’amato; non si trova nell’Isola che non c’è o a tu per tu con tirannosauri e diplodochi. È nel centro della Storia, là dove uomini e donne combattono, e muoiono, per difendere se stessi o (più spesso) un potere di cui non hanno neanche una reale percezione. Nella fatidica frase “il prossimo errore che i nostri paesi commetteranno potrebbe essere l’ultimo” l’accento non va dato né al concetto di errore, a cui ogni uomo dotato di cervello è abituato, né al riconoscimento paritario di virtù e colpe dei blocchi contrapposti, ma al termine ultimo. Non c’è più tempo, ricorda Donovan, parlando all’ambasciatore russo ma allo stesso tempo al pubblico. Non c’è più tempo per gli errori. Non si può pensare di risolvere questa faccenda con la forza, ma solo facendo ricorso alla diplomazia: un uomo per un uomo. Forse per due, se la fortuna assiste. In un frangente storico come quello in cui Il ponte delle spie raggiunge le sale di mezzo mondo, un monito che non può passare inosservato. Anche per questo con ogni probabilità Spielberg sceglie un registro sottotono, pacato. Il ponte delle spie è un film di dialoghi, serrati magari ma mai urlati, in cui l’esagitazione è lasciata sempre fuori dalla porta. Come le timbriche plumbee e quasi neutre scelte da Janusz Kaminski, alla quindicesima collaborazione con Spielberg, e come la naturalezza di una macchina da presa che non si lascia andare a un movimento di troppo.
La sobrietà di una messa in scena che potrebbe anche correre il rischio di apparire didascalica, ma in realtà rinnova il patto tra Spielberg e il pubblico, quello di un intrattenimento mai sbilenco rispetto al registro adottato. E il registro non ha più nulla a che vedere con le ipotesi da cinema/luna park dei vari Indiana Jones e il tempio maledetto, Hook e Jurassic Park (e in misura maggiore delle sue produzioni per altri cineasti), perché il roboante incedere della Storia è centro e sfondo allo stesso tempo.
Nel cuore dell’inquadratura non c’è mai spazio per il Muro, o per i mirabolanti U-2 dell’aviazione statunitense, ma solo per l’uomo, per le sue contraddizioni, per le sue qualità e vizi. Il resto è materiale da avanspettacolo storico, del quale già si conoscono gli esiti, e che può dunque rimanere nel fuori campo. In questa chiave di lettura, oltre al senso dell’epos e alla potenza dell’immaginario, Spielberg può davvero essere considerato l’unico erede di John Ford tra i registi della New Hollywood. Lo testimonia una volta di più l’ultimo segmento de Il ponte delle spie, dalla nebbiosa alba sul ponte di Glienicke fino a quell’immagine che scorre davanti agli occhi di Donovan mentre si trova in metropolitana. L’ennesimo conflitto nel conflitto, paradosso e immagine riflessa di una Storia che non è mai finita. Barack Obama e Vladimir Putin, all’ultimo G20 ad Antalya, alle pendici del Tauro Occidentale, hanno sorpreso giornalisti e colleghi intrattenendosi in una chiacchierata riservata, ma quasi improvvisata: avranno sicuramente parlato di Siria, Turchia, e delle posizioni da occupare in un supposto post-Isis e, ben più dibattuto, post-Assad. Tra quarant’anni ci sarà un regista in grado di raccontare questo evento senza la pretesa di raccontare la Storia, ma ricordandosi dell’umanità che l’ha attraversata, spesso muovendosi a tentoni? Perché il “reale” ha più volti, anche se in molti tendono a dimenticarlo.
[Thank you, Quinlan!]
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