The Hateful Eight_locandina italianaGirato nel “glorious 70mm”, The Hateful Eight di Tarantino prosegue nello scavo della storia statunitense, mostrandone il volto mai pacificato, barbarico e sudicio. Un kammerspiel immerso nella neve, e nel sangue.

There Won’t Be Many Coming Home

Qualche anno dopo la guerra civile, una diligenza corre attraverso il Wyoming innevato. I passeggeri, il cacciatore di taglie John Ruth e la donna che ha catturato, Daisy Domergue, sono diretti verso la città di Red Rock dove Ruth, chiamato da quelle parti “Il Boia”, consegnerà Domergue nelle mani della giustizia. Lungo la strada incontrano due sconosciuti: il maggiore Marquis Warren, un ex soldato nero dell’Unione diventato uno spietato cacciatore di taglie, e Chris Mannix, un rinnegato del Sud che sostiene di essere il nuovo sceriffo della città. A causa di una bufera di neve, Ruth, Domergue, Warren e Mannix cercano rifugio nell’emporio di Minnie, una stazione di posta per le diligenze tra le montagne. Quando arrivano non trovano la proprietaria, ma quattro facce sconosciute…

[Informazione per i lettori: questa recensione si basa sulla versione in 70mm di The Hateful Eight, della durata di 188 minuti, più lunga nel complesso di circa venti minuti rispetto a quella in dcp reperibile nella stragrande maggioranza delle sale cinematografiche. Nello specifico la sala di riferimento è lo Studio 5 di Cinecittà. Per approfondire la questione, leggere qui e qui.]

Cosa ci fa un crocifisso di legno piantato nel terreno nel bel mezzo del nulla, sulle montagne del Wyoming? Perché una diligenza corre a spron battuto affondando le ruote nella neve? Inizia nel nowhere l’ottavo film di Quentin Tarantino – sarebbero in realtà nove, se il regista considerasse Kill Bill un’opera in due volumi –, come già era accaduto con Inglourious Basterds e Django Unchained: da qualche parte nella “Francia occupata dai nazisti”, da qualche parte nel Texas schiavista, da qualche parte nel Wyoming pacificato. Pacificato almeno sulla carta, perché la Guerra di Secessione è finita da qualche anno, oramai; ma non nella realtà. Già, ma cos’è in effetti la realtà per Tarantino?
La Storia nelle sue mani diventa un organismo vivo, pulsante, con l’ottica cinematografica che ha il diritto (il dovere) di deformarla, ricostruirla, rimasticarla. Solo così Adolf Hitler e Joseph Goebbels possono essere trucidati all’interno di un cinema parigino dato alle fiamme, e solo in questo modo un ex schiavo può fare irruzione nella linda e putrida Candyland per fare fuori, uno alla volta, tutti i negrieri del circondario, facendo riacquistare la libertà alla sua amata. La Storia è sempre reale, purché abbia l’umiltà e il coraggio di rimanere sempre storia, narrazione, in modo da essere veicolo, e non solo punto d’arrivo.

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Fin dai tempi di Pulp Fiction (per quanto ora si faccia a gara ad affermare il contrario, Reservoir Dogs divenne pane quotidiano per i cinefili solo dopo il successo planetario del film successivo), una vulgata piuttosto semplicistica ha accompagnato Tarantino: a volte senza alcun intento denigratorio lo si accusava, e lo si accusa ancora, di un formalismo fagocitante, in grado di soffocare qualsiasi altro elemento nei suoi film. Il cinema come gesto gratuito, in fin dei conti, gioco cinefilo portato alle estreme conseguenze, danza cinetica che è pura goduria per gli occhi ma dona assai poco nutrimento al cervello. Quisquilie, si dirà, di fronte alla potenza dell’immaginario. Quisquilie… In attesa di ritornare su questo punto, è però giusto confrontarsi con la prima inquadratura di The Hateful Eight, quella diligenza sperduta in uno spazio infinito e di un bianco ottundente. Tutta una questione di formato.

Il 70mm, tornando alla concezione di Tarantino come regista interessato in maniera prioritaria alla “forma”, potrebbe apparire niente più che un vezzo. E in parte forse lo è anche. L’idea di ritornare con la mente a un’epoca in cui lo schermo si faceva davvero grande, quella di Ben-Hur, Oklahoma!, Il giro del mondo in 80 giorni, West Side Story e Lawrence d’Arabia, deve avere senza dubbio solleticato Tarantino. Anche altri suoi colleghi dopotutto hanno ceduto al fascino del 70mm (Paul Thomas Anderson con The Master, Kenneth Branagh con Hamlet, e poi alcune singole sequenze dei film di Christopher Nolan, tanto per fare degli esempi). Ma non si esaurisce tutto così semplicemente. Perché dopo un incipit che vagheggia tensioni naturalistiche à la John Ford, con il paesaggio che forza e condiziona i personaggi al punto da diventare lui stesso personaggio – quando il maggiore Marquis Warren racconta del modo in cui ha ucciso gli uomini che volevano mettere le mani sulla taglia che pendeva sulla sua testa, quella montagna su cui si nascondeva diventa a sua volta ingombrante e minacciosa – fa seguito la scelta più coraggiosa, quella di rinchiudere gli “odiosi otto” in uno spazio chiuso, e per di più anche piuttosto angusto.

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Tim Roth e Walton Goggins

L’emporio di Minnie è composto da una sola stanza, nella quale si cucina, si conversa davanti al fuoco, si divide il pasto e si dorme. Non c’è nulla al di fuori di questa stanza, tanto che per mettere al sicuro gli animali o andare in bagno è necessario uscire. Come il capannone de Le iene, anche l’emporio di Minnie è un luogo di incontro; un posto in cui nessuno si ferma per sostare. Un non luogo, come le locande che hanno reso celebre il cinema di King Hu, in cui si va solo per due motivi: nascondersi, o cercare. Il fatto che Tarantino scelga di utilizzare un formato cinematografico, per di più desueto, che fa della nitidezza e della larghezza dell’immagine il suo tratto peculiare per riprendere la storia di un gruppo di reclusi, che non può far altro che attendere le tensioni pronte a esplodere mentre fuori la bufera non accenna a diminuire, rappresenta di per sé una sfida, e la sottolineatura di un concetto.

La sfida è quella di destrutturare lo spazio scenico, ridefinirlo esattamente nello stesso modo in cui si ricostruisce (e sbrindella) la Storia; il concetto è quello di un cinema che non è più solo bigger than life, ma è soprattutto bigger than history e, a conti fatti, più grande del cinema stesso. Non c’è nulla in questo primo decennio e mezzo del Ventunesimo Secolo che assomigli al cinema di Tarantino perché si continua in maniera cocciuta a fraintenderne il senso. Se c’è un gioco, non è quello della citazione cui tutti sembrano lanciarsi ogni volta che affrontano un nuovo film di Tarantino: anche in The Hateful Eight non mancano i rimandi, esterni e interni, ma non c’è una sola sequenza che viva sullo schermo solo per sollazzare il supposto onanismo cinefilo del regista. Se è per questo, una sequenza del genere non è mai esistita in ventiquattro anni di regie.

Il vero gioco, l’aspetto realmente ludico del cinema di Tarantino, è invece tutto nella composizione e nella scomposizione di ciò che viene narrato, e del motivo per cui viene narrato. Si può distinguere la filmografia di Tarantino (escludendo il segmento da lui diretto per il film collettivo Four Rooms) in tre blocchi: il primo va da Le iene a Jackie Brown, e può comprendere anche soggetti e sceneggiature poi filmati da altri, come Una vita al massimo o Natural Born Killers; il secondo contiene i due capitoli di Kill Bill e Death Proof, suo contributo al grindhouse creato insieme al sodale Robert Rodriguez; il terzo blocco, infine, inizia con Bastardi senza gloria e arriva – per ora – a The Hateful Eight. In tutti e tre i blocchi è presente una scomposizione che prelude a una ricostruzione: quella del noir e dell’hard boiled, quella dell’exploitation movie e quella del film “storico”.

Su quest’ultima accezione non c’è da scherzare più di tanto: Tarantino non maneggia gli eventi storici per dileggiarli o trarne esclusivo diletto. C’è uno scavo, continuo e persistente, che era già avvertibile ma in maniera più blanda nelle opere precedenti al 2009. Che si tratti della barbarie nazista o della Guerra di Secessione, Tarantino sfrutta la contingenza storica per tracciare un percorso che si incunei nella storia americana, rivoltandola dall’interno. Il non luogo, quella catapecchia gestita da Minnie e Sweet Dave (ora in vacanza dalla madre di Minnie, come spiega il messicano Bob a Warren e John Ruth) che non ha vicini e non collega a nulla, è indispensabile per spazzare via una volta per tutte i residue delle vestigia dell’epopea del west. Un atto che era già in fieri in Django Unchained, e che trova qui la sua sublimazione.

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Sempre immensi Kurt Russell e Samuel L. Jackson

Se Django e Schultz vagavano per tutto il sud confederato, contrapponendo alla diaspora la furia vendicativa screziata di giustizia e, in Schultz, di morale, questo è un orpello oramai inutile per i protagonisti di The Hateful Eight. Figure squallide, cacciatori di teste, boia, assassine, generali razzisti, cowboy, rinnegati: uomini e donne luridi ben più delle loro vesti stracciate e vilipese dal fango e dalla neve. Feccia della peggior specie, che si è cannibalizzata a vicenda approfittando della guerra e non ha faticato più di tanto a trovare un proprio posto nell’America in “pace”. Mannix, dall’aspetto quasi beota, è addirittura stato eletto sceriffo; Warren porta sempre con sé la lettera che gli scrisse, mentre era al fronte, nientemeno che Abraham Lincoln, di fronte alla quale persino un uomo di pietra come John Ruth finisce per commuoversi.

Per quanto non manchi la verve dialogica che ha reso celebre il cinema di Tarantino, l’impressione è che i personaggi si parlino contro e addosso per il terrore di rimanere in silenzio, di dover coprire uno spazio che altrimenti si dimostrerebbe inequivocabilmente vuoto, privo di senso. Parlano per sconfiggersi a parole prima di dover passare all’uso della canna da fuoco, ma anche per scacciare quell’ombra di morte che li insegue e, come la bufera di neve, si appresta a piombare su di loro. The Hateful Eight ha il rintocco di una marcia funebre a tenere il tempo per questa sarabanda di uomini/animali che aspettano il momento giusto per ghermire il proprio avversario.

Il grande Quentin Tarantino

Violento e ispido come solo raramente era capitato perfino a Tarantino, The Hateful Eight è il punto di non ritorno dell’America democratica, quella che segue le leggi e si sta lasciando alle spalle i tumultuosi eventi della guerra fratricida. Un’America in cui un nero può essere maggiore dell’esercito, e una nera può gestire un emporio; ma non per questo un luogo più civile, o ancor meno gentile. In una stamberga sperduta nel nulla, in uno stato che in pochi saprebbero disegnare sulla mappa (ma al Wyoming fu è possibile associare almeno un paio di eroi del west, Buffalo Bill e Nuvola Rossa, il capo dei Sioux), si consuma una tragedia in due atti, che elude le unità aristoteliche permettendosi un balzo all’indietro nel tempo, seppur di poche ore. Il primo atto è un preludio, in cui la commedia si fa farsa per cercare di ricacciare indietro il tanfo degli odiosi otto. Il secondo atto è il grand guignol, la tragedia che si fa mattanza e in cui gli umori trovano i pertugi giusti per invadere lo schermo.

Tarantino orchestra la sua danza infernale con occhio mai indulgente verso i suoi personaggi – per la prima volta nel suo cinema non esiste la possibilità di uno schieramento, quale che sia, visto che tutti gli attori in scena sono bastardi, stavolta davvero senza alcuna gloria da reclamare – e dà ulteriore dimostrazione della sua sapienza registica. Basterebbe la sequenza in cui Warren rievoca al generale Smithers il modo in cui umiliò e uccise suo figlio Charles, con gli occhi del vecchio Bruce Dern che si stagliano in sovrimpressione sulla montagna innevata, o il cambio di fuoco a creare un ipotetico campo/controcampo mentre la prigioniera Daisy Domergue canta Jim Jones At Botany Bay, per inserire The Hateful Eight tra le visioni indispensabili di questi anni. Mentre altrove si cerca nella maestosità della natura il senso dell’umano e dell’americano (Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu, ovviamente), Tarantino riduce tutto a una serie di assi malmesse, e a uno scalcinato camino. Niente orsi, niente nativi belligeranti, nessun fiume in piena. Solo l’uomo, con le sue “qualità” inestirpabili come la gramigna: qualità che parlano di violenza, sopraffazione, ingiustizia, razzismo, crudeltà, livore. Se una redenzione è possibile, passa solo una volta di più attraverso l’omicidio. Eppure da qualche parte, in un altro non luogo come la Casa Bianca, un presidente degli Stati Uniti abbandona l’amico di penna perché la moglie ha oramai preparato il letto per la notte. Ma la Storia, si sa, non è mai quella che viene davvero raccontata…

[Thank you so much, Quinlan!]

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