L’opera prima di Lorenzo Corvino WAX – We Are The X parla del precariato giovanile, racchiuso nella sigla “X Generation”, con tanto di rimando ad un universo punk che si riteneva ormai morto e sepolto. Naturalmente tutto è cambiato dai tempi di Clash e Sex Pistols, e anche dei movimenti epigoni, dal Settantasette alla Pantera, fino alla frantumazione individualistica del terzo millennio. Sul piano formale, questo frizzante debutto (non solo il regista, ma anche direttore della fotografia, scenografo, musicista, casting director e altri operatori sono esordienti) compone efficacemente sperimentazione e freschezza interpretativa per esprimere con la giusta leggerezza il disagio di una generazione apparentemente condannata a non avere punti di riferimento e certezze per il futuro.
D’accordo, precariato intellettuale più che economico, come ha tenuto a precisare Corvino in conferenza stampa, forse perché le consuete reti familiari su cui si basa il tessuto sociale del nostro paese ancora reggono, ma pur sempre una realtà che non permette il pieno dispiegarsi delle energie racchiuse nell’età d’oro dell’Uomo.
La cifra stilistica scelta dal team artistico e produttivo è in piena sintonia con l’esigenza di raccontare la vicenda di Joelle, Dario e Livio, trentenni in cerca della propria strada nel lavoro così come nella vita: l’incalzante ritmo della ripresa in soggettiva è sostenuto dall’uso di smartphone in funzione dual cam (tecnologia peraltro non presente sui modelli disponibili al momento di girare: così Corvino, che vanta un ulteriore plus innovativo), sperimentando nuovi linguaggi cinematografici che mettono alla prova tanto la libertà d’espressione degli attori quanto i modelli di fruizione dello spettatore. Il tutto messo al servizio della narrazione, senza inutili esercizi di stile o adesioni a ipotetici manifesti culturali.
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Infatti, al di là della trovata di marketing di battezzare WAX il primo “self(ie)-movie”, il film è una ventata d’aria nuova nel cinema italiano, poco incline a rischiare cercando moduli narrativi insoliti. Interessante il ricorso, lungo tutto il film, a registri ogni volta diversi, dal formato amatoriale delle prime inquadrature dell’attivista che dà il via alla storia (cameo di Rutger Hauer) all’uso delle telecamere di sorveglianza a circuito chiuso per la sequenza in cui i tre protagonisti sono abbordati da un produttore televisivo alla caccia di volti nuovi per un reality (Jean-Marc Barr, attore prediletto di Lars Von Trier), salvo poi scoprirsi per l’ennesima volta vittime inconsapevoli di un gioco più grande di loro: come in un gioco di specchi, i ragazzi passano da un’illusione all’altra, fino alla decisione di prendere in mano la propria vita e mandare tutto al diavolo. Per non diventare come un oggetto di cera (wax, per l’appunto), che puoi plasmare finché vuoi, ma che con il passare del tempo si indurisce irrimediabilmente.
Bravissimi gli interpreti anche se poco visti finora sul grande schermo: Gwendolyn Gourvenec, Jacopo Maria Bicocchi, Davide Paganini sono un trio molto ben assortito, che interagisce con sorprendente freschezza, facendo scattare un’immediata empatia con i rispettivi personaggi.
Ognuno di loro reagisce a modo suo davanti alla duplice sfida attoriale e di vita: Dario/Jacopo è timido, ingenuo, pronto ad entusiasmarsi per l’avventura che immagina stia per partire, non vuole perdersi nulla, al punto da restare dietro alla macchina da presa anche quando l’azione è già iniziata. Livio/Davide è indolente, già quasi disilluso ma al tempo stesso leale e pronto a condividere guai (molti) e successi (pochi) con i compagni di viaggio. Joelle/Gwendolyn è sbarazzina, smaliziata e determinata ma anche fragile, forse a causa di un amore proibito perso per sempre, o forse per la consapevolezza di dover lottare sempre per realizzare i propri sogni.
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