Sono solo un uomo in cerca della verità.
Sì…ma quale verità?
Ottimi spunti, ottime intenzioni, ottima atmosfera, protagonisti d’eccezione e nonostante ciò…bersaglio fallito. Gilliam non è Darren Aronofsky e si vede dal primo fotogramma. Un gran peccato, davvero. Questa coproduzione Inghilterra-Romania-Francia ha impiegato ben tre anni per giungere nelle nostre sale…e sarebbe stato meglio non fosse comparsa affatto. Si affastellano al suo interno un oceano di citazioni ma ciò non basta a salvarla, purtroppo. Da The Matrix, palesemente citato da Bob, al cult Pulp Fiction (quando Qohen chiede alla splendida Bainsley cosa fa, lei gli risponde “Risolvo problemi”).
Posto tutto ciò e nonostante un cast stellare di tutto rispetto, quest’ultima prova del visionario Terry Gilliam dista anni luce dal suo Brazil di ormai 32 anni fa ed è assurdo che in un lasso di tempo così significativo ci si riduca ancora a cosette ridicole come il cybersex con le tutine ed a scopiazzature del Giappone contemporaneo per dare l’idea di un remoto futuro alla 1984 che, il caso non esiste, è proprio l’anno in cui Brazil venne girato: “Quando ho girato Brazil nel 1984, volevo dipingere l’immagine del mondo in cui pensavo stessimo vivendo allora. The Zero Theorem è uno sguardo sul mondo in cui penso di vivere ora. La sceneggiatura di Pat Rushin mi ha intrigato per le molte idee esistenziali racchiuse nel suo divertente, toccante e racconto filosofico. Per esempio: Che cosa dà significato alla nostra vita, che cosa ci procura gioia? Si può essere soli nel nostro mondo sempre più connesso e ristretto? Questo mondo è sotto controllo o è semplicemente caotico? Abbiamo cercato di fare un film che sia onesto, divertente, bello e sorprendente; un film semplice su un complicato uomo moderno in attesa di una chiamata per dare senso alla sua vita; un film sull’inevitabilità delle relazioni e sul desiderio d’amore; una storia piena di personaggi singolari e di sfavillanti situazioni che solleva interrogativi senza fornire risposte scontate. […] Il risultato ha sorpreso persino me”.
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Ci dispiace infinitamente per il nostro amatissimo ex Monty Python. Il risultato ha sorpreso, in negativo, noi! Low budget non significa mai “brutto” o “scarso”. La storia del cinema è piena di esempi significativi a riguardo. Locke, girato interamente in una BMW X5, con un Tom Hardy in stato di grazia, è un diamante e poteva contare su mezzi ben più esigui di questa ultima “fatica” del cofondatore del Flying Circus (1969), significativo passo indietro rispetto alle speculazioni filosofiche del suo Parnassus. È più che comprensibile e condivisibile la riflessione sulla morte di un brillante regista 73enne (all’epoca delle riprese) ma non c’è niente di più terribilmente frustrante della bellezza sprecata.
Non si possono prendere una meraviglia estetica come Mélanie Thierry, un talento naturale come Christoph Waltz, una star di prima grandezza come Matt Damon, la divina Tilda Swinton…per poi soffocarli in una sceneggiatura insensata, retta insieme soltanto dalla mirabile fotografia e da scenografie indubbiamente argute. L’idea, infatti che il genio dal nome biblico-ebraico (Qohen, che ricorda molto sia Cohen che Qoelet, noto da noi come Ecclesiaste, il libro della Bibbia in cui si trova la splendida frase “C’è un tempo per ogni cosa”) viva in una chiesa sconsacrata avuta per due soldi dopo un incendio è decisamente splendida ma, ahimè, ci si ferma lì e se si pensa che Il Teorema Zero sarebbe dovuto essere la conclusione della trilogia distopica iniziata con Brazil e proseguita con L’esercito delle dodici scimmie…l’amaro in bocca persiste a lungo.
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