Ghostbusters_locandinaPreceduto da una sequela senza precedenti di stroncature preventive, il nuovo Ghostbusters è in realtà un prodotto rispettoso del film originale, che ne ripropone efficacemente la formula in un diverso contenitore.

In procinto di ottenere una cattedra alla Columbia University, Erin Gilbert vede terminare ingloriosamente la sua carriera accademica dopo la ricomparsa di un libro sui fantasmi, che la donna aveva scritto anni prima insieme all’amica Abby Yates. Rimasta disoccupata, Erin deciderà di riunirsi ad Abby per aprire un’attività di acchiappafantasmi.

Raramente si è riscontrato, nella storia del cinema, un caso di “odio” preventivo analogo a quello che ha circondato questo nuovo Ghostbusters. Una levata di scudi incondizionata, da parte dei cultori del film del 1984 di Ivan Reitman, che dovrebbe forse far riflettere sull’alone di sacralità (e sulle sue degenerazioni) che circonda, in quest’epoca, il cult movie come entità, più che come prodotto culturale. Di una prosecuzione del franchise inaugurato ormai tre decenni orsono dal film di Reitman, comunque, si parlava da tempo immemore; più o meno da quando il sequel del 1989 lasciò perplessi i critici e sostanzialmente delusi i fan.

In seguito, man mano che gli anni passavano, e che l’idea di un ipotetico terzo episodio si allontanava, cresceva il carattere sacrale, di oggetto perfetto ed intoccabile (aumentato dall’inevitabile effetto-nostalgia) del film di Reitman; e crescevano parallelamente i rischi per chiunque si fosse cimentato nell’impresa di dare una prosecuzione, di qualsiasi genere, alla saga. Il rifiuto categorico di Bill Murray prima, e la scomparsa di Harold Ramis poi, hanno definitivamente messo una pietra tombale sull’ipotesi di un Ghostbusters 3. E allora, se non sequel, doveva essere reboot. Con un taglio netto alla continuity, e una nuova squadra di protagonisti.

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L’idea di un team di acchiappafantasmi al femminile poteva certo lasciare spiazzati, visto il modo in cui i personaggi di Bill Murray, Dan Aykroyd, Harold Ramis ed Ernie Hudson erano penetrati, a fondo, nell’immaginario cinefilo. La levata di scudi preventiva è stata certo favorita dall’insolita nuova direzione che si è voluta dare al plot. Ma, in fondo, se è vero che il film originale aveva ormai assunto i caratteri dell’oggetto intoccabile, e i suoi protagonisti quelli devozionali delle icone, l’unico modo per rendere digeribile un nuovo avvio era probabilmente quello di una rottura radicale. Rottura che comunque, guardando il film di Paul Feig, ci si rende conto essere meno sostanziale (e ciò è un bene) di quanto ci si potesse immaginare. Se il nuovo gruppo di protagoniste, infatti, ha inserito un provocatorio elemento di discontinuità, alleggerendo il peso del confronto su sceneggiatori e (soprattutto) interpreti, la struttura narrativa, il mood, persino i caratteri di base dei singoli personaggi, traslati nei loro omologhi al femminile, sono stati sostanzialmente rispettati. Quello di Feig (pur nella difficoltà, e nell’inevitabile inadeguatezza, di definizioni e categorie) è classificabile a ragione come un vero e proprio remake. Un remake che, se non ripercorre pedissequamente il plot del suo modello, certo ne ripropone gli snodi narrativi e gli approdi, riutilizzandone tanto gli ingredienti quanto il dosaggio.

Così, lo script di Feig e Kate Dippold rimette in campo quel modello di umorismo, irriverente ma sempre al di qua dell’esplicita scorrettezza politica, che aveva fatto la fortuna del film di Reitman; ne ripropone la tipologia di dialoghi, tutta affidata all’affiatamento tra gli interpreti, il ritmo comico favorito dalla struttura corale, la tessitura episodica che, più che allo sviluppo di una narrazione solida e armonica, si affidava al susseguirsi di folgoranti intuizioni, di dialoghi al fulmicotone contrappuntati da altrettanto felici invenzioni visive. Più rispettoso del suo modello, e del suo pubblico, di molti prodotti analoghi, questo nuovo Ghostbusters trasporta in un diverso contenitore la tipologia di humour, e il mix di risate, meraviglia visiva e (poca) paura, che avevano consegnato il suo ispiratore alla storia. Nella esilità sostanziale che, se nel contesto degli anni ‘80 era mascherata e diminuita di peso dalla forza dell’immaginario espresso (e dal diverso approccio del pubblico), nel 2016 risulta certo più avvertibile, sta il suo insormontabile limite. Eppure, dati i contorni del progetto, il modo in cui le sue premesse si sono trasformate e riadattate nel tempo, e il fastidioso sottofondo di bocciature preventive (anche da quella critica che, si suppone, dovrebbe farsi portatrice di un punto di vista più equilibrato), il film di Feig ha raggiunto sostanzialmente il suo scopo.

Ghostbusters-2016_middle

Tra le inevitabili strizzate d’occhio a un immaginario eighties adocchiato, ma mai pedissequamente riproposto (lo stesso tema musicale è presente spesso in forme rielaborate), gli ammiccamenti mai gratuiti agli spettatori del film originale (ivi compresi i camei di quasi tutti i suoi protagonisti superstiti – significativo quello di un Murray che diventa qui scienziato scettico), l’ottima resa d’insieme delle prove di Kristen Wiig, Melissa McCarthy e Kate McKinnon, e la felice presenza di un Chris Hemsworth intelligentemente autoironico, questo Ghostbusters versione 2016 intrattiene con mestiere e levità: raggiungendo un apprezzabile compromesso (forse il migliore possibile, date le premesse) tra rispetto del testo originale e necessità di adattarne le premesse alla sensibilità del pubblico moderno. Pubblico che lascia il film incassando la “promessa” di un possibile secondo episodio, annunciato da una sequenza post-credits che fa di nuovo, consapevolmente, l’occhiolino a tutti i cultori del film di Reitman.

[Thank you, Quinlan!]

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