Archiviato l’ambizioso reboot in due atti di J. J. Abrams (Star Trek e Into Darkness – Star Trek), non è difficile intuire le intenzioni e le coordinate di Star Trek Beyond, episodio in tono minore, praticamente a velocità di crociera. Non un ridimensionamento, ma il naturale assestamento per un franchise che si nutre di serialità, di elaborazione e rielaborazione di schemi, iconografie, gag, personaggi e scenari.
That’s the spirit, Bones.
I membri dell’equipaggio dell’Enterprise si spingono nei più remoti recessi dello spazio inesplorato dove si imbattono in un nuovo nemico misterioso che mette alla prova loro e tutto ciò che la Federazione rappresenta.
Nell’anno del cinquantesimo anniversario di Star Trek, e del doveroso restauro di Ikarie XB 1, il sequel/reboot Star Trek Beyond abbandona definitivamente la Terra e i suoi dintorni per inabissarsi nell’ignoto spazio profondo, esplorando il cosmo «alla ricerca di nuove forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare là dove nessuno è mai giunto prima». Astronavi, stelle misteriose, nuovi pianeti, imprevisti, pericoli e tutto quel che segue. Lo scenario naturale di una space opera, declinazione tra le più fertili dell’immaginario fantascientifico.
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Archiviato l’ambizioso reboot in due atti di J. J. Abrams (Star Trek – Il futuro ha inizio e Into Darkness – Star Trek), non è difficile intuire le intenzioni e le coordinate di Star Trek Beyond, episodio in tono minore, praticamente a velocità di crociera. Non un ridimensionamento, ma il naturale assestamento per un franchise che si nutre di serialità, di elaborazione e rielaborazione di schemi, iconografie, gag, personaggi e scenari. Tutto torna (utile) nell’universo fantascientifico e ultra-democratico creato da Gene Roddenberry. E ricreato da Abrams.
La fitta rete di rimandi, gioiose celebrazioni, elaborazioni di lutti reali e immaginari, tra sequenze spettacolari e una sana furia iconoclasta (perché, appunto, tutto torna…), permette al nuovo timoniere Justin Lin di innestare su una trama basilare una sovrastruttura spettacolare, enfatizzata dal 3D e da intuizioni registiche e scenografiche dal retrogusto escheriano: a restare impresse nella memoria, ben più dei destini di qualche vittima sacrificale e del villain Krall (Idris Elba), saranno probabilmente tre sequenze che giocano con la forza di gravità e la sua assenza – senza contare la corsa in moto del capitano Kirk, un po’ folle e un po’ gratuita, ma perfettamente in linea con Lin e la lunga serie Fast & Furious.
La missione sul pianeta Altamid, ennesimo tassello di una cosmologia immaginaria, ha i contorni dell’episodio espanso, aggiornato al budget fragoroso e alle infinite possibilità dell’odierna computer grafica. La sensazione, in qualsiasi sequenza e snodo narrativo di Star Trek Beyond, è che non accadrà nulla di realmente rilevante, memorabile: in questo senso, sono emblematiche le morti reali di Leonard Nimoy (il primo Spock) e Anton Yelchin (il nuovo Chekov), che costringono gli autori a fare i conti con la vita oltre lo schermo.
Il tempo che passa, riassunto perfettamente in una battuta di Kirk e in una nostalgica fotografia, è un tema che attraversa Star Trek Beyond ma che non lo permea, annacquato dall’impianto spettacolare e dalla frammentazione narrativa in piccoli e anche sagaci buddy movie. Programmaticamente rispettosi di alcuni dettami roddenberriani (l’internazionalismo e la forza dell’unione), gli sceneggiatori Simon Pegg e Doug Jung si divertono a smembrare la nave stellare USS Enterprise e il suo equipaggio, per poi ricomporre il tutto pezzo dopo pezzo. La dimensione Kirk-centrica e Spock-centrica di Star Trek – Il futuro ha inizio e Into Darkness – Star Trek lascia spazio alla Odd Couple Spoke/Bones, alle evoluzioni del duo Kirk/Checov, ai vessilli dell’interrazialità Uhura/Sulu e alla nuova arrivata Jaylah, accompagnata da Montgomery “Scotty”.
Nel solco della tradizione, e giustamente non enfatizzato, l’accenno alla famiglia di Sulu, con compagno e graziosa figlioletta. Di passaggio, sullo sfondo, perché il clamore suscitato dal celeberrimo bacio tra Uhura e Kirk dovrebbe essere solo un retaggio di tempi passati – l’episodio Umiliati per forza maggiore (Plato’s Stepchildren, 1968), terza stagione della serie classica.
Orfano dei lens flare e degli slanci drammatici di Abrams, Star Trek Beyond si lascia alle spalle la necessità di dover rigenerare un immaginario, inserisce il pilota automatico e si prepara idealmente a una nuova missione quinquennale: già alle prese col quarto episodio (quattordicesimo dallo Star Trek di di Robert Wise, datato 1979), Simon Pegg e soci sembrano voler seguire le vecchie e consolidate traiettorie disegnate dalla serie classica, così da riportare il franchise su quei binari richiesti a gran voce dai fan. Al netto della cgi e del 3D, un comprensibile ritorno all’ortodossia – sulla carta, dovrebbe essere un percorso inverso rispetto agli auspicati sviluppi del rinnovato Star Wars. Il tutto condito da commoventi omaggi e strizzatine d’occhio: funzionano a dovere le note rivisitate da Michael Giacchino, che rimandano ad avventure passate e future; le vecchie astronavi e la tecnologia d’antan; l’affetto cameratesco e di lunghissima data di Spock, Bones e Kirk, fatto di poche parole e grandi gesti. Ma funzionano anche l’avveniristica Yorktown, a sei gradi di separazione dal “pianeta bianco” di Ikarie XB 1, e il rilassante intreccio tra tecnologia e ironia. Basta lasciarsi cullare dal pilota automatico…
[Thank you, Quinlan!]
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