Con Hacksaw Ridge, Mel Gibson presenta la sua lettura del war movie, grondante sangue, fede e coriaceo talento. Fuori Concorso a Venezia 2016.
La storia vera di Desmond Doss che, a Okinawa, durante una delle più cruente battaglie della seconda guerra mondiale, salvò 75 uomini senza sparare un solo colpo. Convinto che la guerra fosse una scelta giustificata ma che uccidere fosse sbagliato, fu l’unico soldato che in quel conflitto combatté in prima linea senza alcuna arma. Doss fu il primo obiettore di coscienza insignito della Medaglia d’Onore del Congresso.
C’è sempre un gran bisogno di personaggi controversi con cui confrontarsi, anzi è cosa assai salubre, in qualsiasi consesso di esseri umani, averne più d’uno in circolazione. Mel Gibson appartiene senz’altro a questa schiera. Regista ambizioso pronto ad affrontare esclusivamente le sfide che gli appaiono più ardite (dal professore sfigurato di L’uomo senza volto all’eroe scozzese di Braveheart, dal Vangelo in sanscrito di La passione di Cristo, al colossal in lingua maya di Apocalypto), attore coriaceo in grado di sfoderare alternativamente e simultanemente sex appeal e ironia (recentemente anche autoironia in Viaggio in Paradiso e Machete Kills), e poi naturalmente c’è l’uomo rissoso e ultra-religioso. Insomma non gli manca niente per guadagnarsi un paio di succose pagine su un nuovo volume di Hollywood Babylonia, né per incarnare quel ruolo di (anti)intellettuale scomodo, peccatore e fustigatore di costumi al tempo stesso, di cui ogni società sana che si rispetti ha un forsennato, antropofago bisogno.
Da uomo di fede qual è, Mel Gibson si cimenta con Hacksaw Ridge, un war movie che fa del dubbio etico e morale il suo nucleo pulsante, dal momento che affronta la storia vera di un soldato della Seconda Guerra Mondiale obiettore di coscienza e decorato per il valore militare. Il paradosso perfetto per Gibson per mettersi in discussione e al tempo stesso riconfermare le proprie idee, come in qualsiasi pellicola hollywoodiana che si rispetti.
Tutto ha inizio nel cuore della battaglia di Okinawa, è qui che il giovane Desmond T. Doss (Andrew Garfield), assistente al soccorso medico, viene ferito e inizia a ripercorrere à rebours la sua vita. Nel lungo flashback, assistiamo in principio ad un’elegia bucolica in cui il rapporto con il fratello prelude al cameratismo militare che troveremo più avanti, mentre la relazione complicata con un padre alcolizzato (efficacemente incarnato da Hugo Weaving) allude al vizio dello stesso Gibson e a un complesso rapporto con la “Patria”, poi c’è l’amore, raffigurato con un romanticismo senza inibizioni. D’altronde Mel Gibson non ne ha mai avute.
La lunga parte dedicata all’addestramento militare poi, con tanto di processo davanti alla corte marziale, inevitabile per un soldato che non intende imbracciare il fucile, presenta forse qualche lungaggine e convince poco nella sua soluzione affidata all’intervento paterno, ma poco importa. La presentazione dei vari commilitoni è ineccepibile e per nulla didascalica e troverà di lì a breve, nella scena della battaglia di Okinawa, la sua perfetta orchestrazione. Suddivisa in tre parti, roboante, violenta, crudele, la sequenza del combattimento contro i giapponesi ha infatti una coreografia balistica impeccabile: lo spettatore non perde un colpo e sa esattamente chi e come è stato colpito. Si può dire tutto di Gibson, tranne che gli piaccia barare. Ed è proprio mentre infuria la battaglia che vengono fuori anche le brillanti intuizioni della sceneggiatura, con il ritorno in senso salvifico di quel “nodo sbagliato” per il quale Doss era stato sbertucciato durante l’addestramento, ma soprattutto per la brillante maniera in cui il nostro pacifico soldato imbraccerà alla fine il fucile.
Se retorica c’è in Hacksaw Ridge, è piuttosto asciutta e sincera ma soprattutto viene soverchiata dal dubbio, da una forma inusuale di relativismo, che forse è ontologicamente appartenente alla guerra stessa. Salvare il proprio paese uccidendo persone è dopotutto una contraddizione in termini, questo vuole dirci Gibson nel raffigurare la complessa utopia di un soldato che vuole partecipare al conflitto senza uccidere, bensì salvando vite, amiche e nemiche.
Gronda sangue, cameratismo e sentimento questa quinta regia di Mel Gibson che affronta il glorioso genere del war movie con sguardo robusto e mente aperta alla messa in discussione di tutto, tranne che della fede. E la fede è d’altronde un argomento complesso, squadernabile in innumerevoli letture, ne parla il grande cinema d’autore (Dreyer, Bresson, Bergman) e ne può parlare anche un blockbuster firmato da Mel Gibson. Deve solo trovare lo spettatore altrettanto dubitativo e scevro di pregiudizi pronto ad accoglierlo.
[Thank you, Quinlan!]
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