florence-foster-jenkins_locandina_smallSbarca all’Auditorium Parco della Musica di Roma la sublime Meryl Streep, protagonista di infinite pellicole scolpite nella memoria di milioni di appassionati di cinema. E lo fa in ottima compagnia: al suo fianco, infatti, uno Hugh Grant in forma strepitosa, per la regia di Stephen Frears, che dai tempi indie di My Beautiful Laundrette ambisce ormai ad un posto tra i classici della settima arte. Con Florence Foster Jenkins, i tre confezionano un sontuoso ritratto di un’epoca, gli anni Quaranta a New York, quando la gente girava rigorosamente a bordo degli yellow cab (altro che Uber…) e si lasciava andare a balli sfrenati per dimenticare il dramma dei “nostri ragazzi” al fronte contro la Germania di Hitler.

Florence è una cantante lirica dal dubbio talento, carenza compensata dai dollari a palate ricevuti in eredità – insieme alla sifilide – dal rozzo quanto ricco primo marito. Con il nuovo compagno, un attore molto british ed altrettanto fallito malgrado le origini aristocratiche denunziate dal nome (Saint Clair Bayfield), la signora si dedica a promuovere la musica ed il bel canto tramite un “Verdi Club” da lei fondato, ingaggiando il giovane ma bravissimo pianista Cosmé McMoon (un leggiadro Simon Helberg, famoso in tutto il mondo come l’Howard Wolowitz di The Big Bang Theory) per cimentarsi nell’impossibile prova di un solo concert alla Carnegie Hall. Frears ricostruisce sapientemente, con il supporto di uno straordinario cast tecnico, le atmosfere della sophisticated comedy, appoggiandosi all’indubbia eleganza di Grant ed all’intenso mestiere della Streep.

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Ambientazione del tutto diversa per Sing Street, di John Carney, già autore di Once: qui, al posto della scintillante Grande Mela, lo sfondo è una tristissima Dublino, sospinta ai margini dell’economia britannica durante il regno della signora Thatcher, con i suoi giovani che sognano di trasferirsi a Londra. Siamo negli anni Ottanta, resi ancor più tristi dall’affermazione sulla scena musicale di gruppi come i Duran Duran… Ma tant’è: Cosmo, un giovanissimo Ferdia Walsh-Peelo, cerca una sua strada per schivare il bullismo imperante al college e, al tempo stesso, conquistare Raphina, affascinante aspirante modella anche lei in fissa con la capitale del Regno Unito. La ricostruzione di un intero periodo storico è convincente ed il pubblico è trascinato dalla formidabile energia che Cosmo e i suoi buffi amici tirano fuori nel loro primo e ultimo concerto pop-rock davanti a centinaia di studenti brufolosi che, grazie a loro, per la prima volta scopriranno che la vita può avere un senso anche in Irlanda.

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Non ha come centro narrativo la musica suonata e cantata ma Kicks, film d’esordio di Justin Tipping presentato in Concorso al Tribeca 2016, non avrebbe potuto essere girato senza il rap sparato a palla dai fratelli dei quartieri-dormitorio della cintura di Los Angeles. Collocato nella sempre stimolante rassegna parallela di “Alice nella Città”, il film mette al centro Brandon, 15 anni, una testa piena di ricci, che vede nell’acquisto di un paio di scarpe fichissime – le stesse del cestista di colore Michael Jordan – la via per il riscatto sociale. Peccato che il quartiere in cui vive sia infestato da un gangsta di nome Flaco che aggredisce il ragazzo e gli ruba le sneakers comprate sacrificando tutti i risparmi. Con l’aiuto di un amico immaginario (un astronauta che solo lui può vedere, un po’ come la tigre di pezza di Calvin&Hobbes) e dei suoi due amici reali, Brandon andrà fino ad Oakland (vera città d’origine di Tipping) per riprendersi il maltolto, rischiando la vita ma ritrovando la propria dignità.

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