Conclusasi il 26 febbraio, dopo dieci intensi giorni di proiezioni ed incontri, l’edizione 2017 dell’Audi Dublin International Film Festival (ADIFF) ha portato a Dublino la migliore produzione irlandese ed internazionale, registrando il tutto esaurito per la maggior parte degli eventi, il che fa molto ben sperare per il futuro del cinema in sala nell’isola di smeraldo. Resta, come sempre, il collo di bottiglia della distribuzione che, da sempre, impedisce ai cinefili di apprezzare molte delle pellicole presentate ai festival di tutto il mondo, da Toronto a Berlino ma qui in Irlanda il problema si accusa molto meno che in Italia ove il mercato è ancora dominato dal cinema commerciale USA per almeno il 50% dell’offerta. Regola non scritta stipulata dopo la seconda guerra mondiale e mai caduta in disuso.
Innegabilmente interessante e sicuramente degno di nota l’approccio di alcuni talentosi esordienti al delicato tema della violenza tra e sui minori, argomento scabroso e poco esplorato ma (come la cronaca tristemente ci insegna) purtroppo estremamente attuale. Un caso emblematico, a riguardo, è rappresentato da Playground di Bartosz M. Kowalski, anche coautore della sceneggiatura. 81 durissimi minuti di grande cinema in cui un gruppo di giovanissimi ci apre la porta su un mondo di violenza e malattia mentale che in pochi avremmo immaginato esistere…con un finale eccezionale quanto durissimo.
Sempre di violenza si tratta ma l’età si alza e l’amore fa capolino in Berlin Syndrome di Cate Shortland in cui la dinamica gatto-topo tra rapitore e rapita (la bellissima Teresa Palmer, una delle poche note di colore del tristemente malriuscito Knight of Cups di Terrence Malick che abbiamo rivisto di recente nell’acclamato La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson) assurge ad una beckettiana partita di scacchi sullo sfondo di una Berlino fredda e distante.
Dispiacere di pubblico e stampa per la mancata apparizione sul red carpet di ADIFF17 dell’immensa ed attesissima Vanessa Redgrave, protagonista assoluta del pregevole The Secret Scripture, ultimo lungometraggio del maestro Jim Sheridan, nel quale, a ben 79 anni, ci regala una performance di rara intensità ed uno degli sguardi più belli ed inimitabili della storia del cinema. Non a caso, il suo ruolo da giovane (abilmente gestito dalla sempre bravissima Rooney Mara) ci rivela un tenero errore di casting, probabilmente dovuto al fatto che una nuova Redgrave deve ancora nascere: come può la protagonista avere gli occhi verdi da giovane e blu da anziana? Boutade a parte, il film regge per quasi tutti i suoi 148’ e tenuto conto della durezza del tema, è un risultato di tutto rispetto che ne rende la visione più che meritevole.
Altra gemma di quest’anno, l’intenso ritratto dell’inestimabile e geniale Emily Dickinson, scritto e diretto dal maestro Terrence Davies, una coproduzione UK-Belgio che ci trasporta nel mondo e nella mente della tormentata quanto divina poetessa, interpretata (in modo sorprendente) da colei che è nota al mondo principalmente come Miranda di Sex and the City. Ma la 50enne Cynthia Nixon (newyorkese doc) è ormai pronta per volare nel mondo del cinema d’autore di alto calibro e questa sua struggente interpretazione da protagonista in A Quiet Passion, presentato in concorso al Festival di Toronto 2016, ne è prova evidente. Menzione d’onore per l’affascinante, irresistibile Jennifer Ehle che, a 47 anni, possiede un sorriso in grado di bucare lo schermo meglio di qualsiasi ventenne e per l’amica del cuore di Emily, ruolo cucito perfettamente addosso alla talentosa londinese Catherine Bailey da cui sogniamo una master class per giovani talenti. La sua interpretazione della “rivoluzionaria” Vryling Buffam vale, infatti, da sola il prezzo del biglietto.
Un’altra opera prima di cui il pubblico italiano si innamorerebbe a prima vista è The Transfiguration, adorato dalla critica a Cannes 2016, ove è stato presentato nella sezione “Un certain regard”; la risposta “american black community” allo splendido Lasciami entrare di Tomas Alfredson (adattamento cinematografico dell’omonimo pregevole romanzo dello Stephen King scandinavo, John Ajvide Lindqvist). Il quasi adolescente tormentato che non è sicuro di essere un vampiro ma indossa l’abito alla perfezione ci regala uno sguardo sul quartiere di Queens (NY) che rivaleggia tranquillamente con quello del primo Scorsese.
Prova evidente che il cinema di genere è vivo e vegeto e la sua qualità è direttamente proporzionale al talento dei filmmaker coinvolti. Applausi a scena aperta, quindi, per il regista e sceneggiatore Michael O’Shea, nato a Brooklyn ma di ascendenza palesemente Irish, con cui abbiamo avuto il piacere di chiacchierare e cui auguriamo mezzo secolo di grandissimi film.
Dulcis in fundo, due chicche lontanissime tra loro ma per le quali non possiamo che auspicare una distribuzione globale: My Entire High School Sinking into the Sea di Dash Shaw, probabilmente il cartoon (solo apparentemente minimale) più nerd e sofisticato del decennio che annovera tra le voci dei protagonisti star planetarie come Susan Sarandon e Jason Schwartzman e, last but not least, uno scontro tra titani di cui vi offriremo adeguata recensione: Trespass Against Us (titolo italiano: Codice criminale) di Adam Smith.
Un grandissimo esordio nel lungo per l’abile videomaker, noto nell’ambiente per aver trascorso più di 20 anni filmando il mondo dei Chemical Brothers sin dalla loro prima apparizione (1994) e per la sua solida carriera di regia televisiva (il nuovo Doctor Who, Skins e Little Dorrit (trasposizione dell’omonima novella a puntate di Dickens). Le scene d’azione in auto e le inquadrature di altissimo livello ci fanno quasi dimenticare, per un istante, di avere di fronte e spesso l’uno contro l’altro, due giganti come Michael Fassbender e Brendan Gleeson.
Non che resta che salutarci, augurando lunga vita al Festival Internazionale del Cinema di Dublino cui, tra pioggia, vento e nuvole ridenti, gridiamo un affettuoso: see you in 2018!
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