In un futuro prossimo la Sezione 9, composta quasi esclusivamente da agenti potenziati ciberneticamente, si occupa dei criminali ad alta tecnologia di New Port City. Il Maggiore Mira Killian (Scarlett Johansson) è il capo della squadra operativa, il primo cyborg integrale mai creato, un cervello umano in un corpo interamente artificiale: priva quasi completamente di memoria il Maggiore viene considerata un’arma letale da chi l’ha creata e un enigma per lei stessa. Quando il misterioso terrorista Kurze attacca il cuore della Hanka Robotics, ditta che ha ricostruito Mira, la donna deve iniziare a investigare sulle sue origini in un viaggio all’interno della sua anima, il suo Ghost…

C’era una volta Ghost in the Shell, manga più noto del geniale Masumune Shirow (Dominion Tank Police, Appleseed, Black Magic): opera magnifica dal world building ispirato, manifesto assieme ai romanzi di Gibson della letteratura cyberpunk. Ghost in the Shell offriva ai suoi spesso disorientati lettori domande mature e scomode sull’etica dei miglioramenti artificiali, sulla morale delle intelligenze artificiali, sulla tecnologia che supera il controllo e la gestione degli esseri umani unite a un erotismo non troppo sottile e scene d’azione rimarchevoli. Dal manga vennero tratte diverse serie di spin off, sequel e prequel oltre che videogiochi e nel 1995 un apprezzato film di animazione venne diretto da Mamoru Oshii.

Cosa rimane del GiTS originale nella sua trasposizione statunitense?

Esteticamente il film è notevolissimo, impressionante: la neozelandese Weta ha fatto del suo meglio per creare New Port City integrando l’estetica della versione originale (dalla nascita del corpo cibenetico che si rifà al film di Mamoru Oshii al night club dalle mostruose case popolari al tempio buddista avvolto da cavi neurali-cordoni ombelicali) a elementi propri di Blade Runner (gli onnipresenti e mostruosi ologrammi pubblicitari) creando un adeguato senso di depressione e decadenza che di certo è l’elemento più rilevante e memorabile del film tanto da poter far scuola.
Rupert Sanders, regista solo del discutibile “Biancaneve e il Cacciatore”, si dimostra oltremodo inadeguato e di certo troppo inesperto per gestire la complessità morale, i villain ambigui e le domande sulla tecnologia e l’evoluzione umana di Shirow preferendo seguire la via hollywoodiana di un action movie sin troppo lineare, prevedibilissimo sin dai primi fotogrammi.
Tralasciando l’evitabile ma in fondo secondario whitewashing (qui in qualche modo giustificato nella narrazione) il reale problema è la gestione dei personaggi che risulta oltremodo fallimentare: a partire dal grande “Beat” Takeshi Kitano che interpreta un diluito, accennato, non abbastanza incisivo caposezione Aramaki alla stessa Scarlett Johansson, già priva del phisique du role, che non genera la minima empatia verso il suo personaggio tormentato, condannato a una solitudine raccontata ma non adeguatamente rappresentata.

Solo Pilou Abaek riesce quasi a far quasi interamente suo il massiccio Batou. Se Michael Pitt svanisce nel nulla Peter Ferdinando fa il possibile per sminuire il suo ruolo rendendolo una macchietta poco interessante danneggiando non poco il finale del film già compromesso. I dialoghi cercano ripetutamente di lasciar intendere un senso più profondo della storia ma risultano sterili, perlopiù vuoti, senza un peso reale. Estetica più che apprezzabile ma…uno Shell cromato privo del suo Ghost.

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