Non una sorpresa, ma una deflagrante conferma: gli eroi dell’Universo Marvel sono colorati, strambi, reietti, sboccati, litigiosi, contagiati dal lisergico spirito della Troma. Alla guida di Guardiani della Galassia Vol. 2 ritroviamo lo sporco e cattivo James Gunn, calato perfettamente nella logica dei sequel e nella filosofia di Groot & Co., in formato famiglia. Spassoso, commovente, (super)eroico.

Eroi, eroi, eroi, del cosmo i grandi eroi…

Le nuove avventure dei Guardiani attraverso le profondità dello spazio cosmico. Mentre sono alle prese con il mistero che avvolge le vere origini di Peter Quill, i Guardiani dovranno combattere per mantenere unita la propria famiglia. I nostri eroi dovranno allearsi con vecchi nemici, ma potranno contare sull’aiuto di alcuni dei personaggi più amati del mondo dei fumetti, che contribuiranno a espandere ulteriormente l’Universo Cinematografico Marvel…

(Super)eroi. Erano nel destino di James Gunn. Per i suoi trascorsi alla Troma, con l’inqualificabile supereroe Toxic Avenger come icona trainante. Per il sagace Super – Attento crimine!!!, pellicola che smitizza e ridicolizza tute, mantelli e quella voglia crescente di farsi giustizia, di giocare alle ronde, di sentirsi un Batman di provincia. Per quella costante negazione del termine super, quando al massimo si può essere eroi, via di fuga dalla cronica condizione di loser e villain. Perché questo sono i (super)eroi di Guardiani della Galassia, gli eroi di Gunn: solitari, perdenti, reietti, stanchi e feriti, incattiviti, bisognosi di un appoggio, di una spalla. Di un amico, di una famiglia. Gli eroi, semplicemente eroi, di Guardiani della Galassia Vol. 2 non hanno bisogno di grandi poteri, e nemmeno di grandi responsabilità, ed è questa la loro forza e peculiarità nell’Universo Marvel, in questa incessante clonazione di supereroi standardizzati, normalizzati, patinati. I Guardiani sono i mutanti, gli X-Men che mancano al Marvel Cinematic Universe.

Gunn affronta di petto la questione sequel e trova ancora una volta il giusto equilibrio tra le necessità hollywoodiane e la libertà creativa, tra comicità guascona e dramma eroico, tra fantasy/fantascienza e i nostalgici e citazionisti riferimenti agli anni Ottanta. La dimensione altra dei Guardiani, per il momento non imbrigliata dalle dinamiche del Cinematic Universe, permette a Gunn di muoversi a piacimento, pur nei limiti dei dettami e delle regole marveliane: si veda, ad esempio, l’illuminante utilizzo del fuori campo e del fuori fuoco nella sequenza d’apertura, con musica e danza (del piccolo Groot, emblema emotivo della saga) che rubano la scena a uno scontro iper-spettacolare, volutamente eccessivo – ma siamo in un sequel e Gunn riesce fin da subito a ironizzare sull’immancabile “più” richiesto dal box office, ovvero più azione, più adrenalina e (persino) più sesso.

Guardiani della Galassia Vol. 2 ha infinite distese narrative a disposizione, può spingere i cameo stanleeiani oltre inimmaginabili confini, può permettersi il lusso di introdurre a ruota libera nuovi personaggi (e quindi nuovi film), può moltiplicare le sequenze post-credit. E può riproporre, spostando il confine ancora un po’ più in là, le dinamiche emotive del primo capitolo: da battitori liberi che diventano squadra a squadra che diventa famiglia, con una serie di figure/personaggi contrapposti, in primis i padri, veri/finti/acquisiti. Una poetica (super)eroica che sposa gli eccessi cromatici, il pop senza remore, il sentimentalismo da eterni adolescenti. Perché alla fine, come nella prima avventura, siamo tutti Groot.

In questa apoteosi cromatica, volutamente sovrabbondante, Gunn riesce a lavorare anche di sottrazione, ma sempre alla sua maniera. Esemplare, ancora una volta, l’utilizzo del fuori campo: mentre i Guardiani si scatenano armati fino ai denti in un decisivo vis-à-vis, Gunn sposta nuovamente la macchina da presa su Groot, in un interno. Dell’estreno ci bastano alcuni flash, i rumori e l’immaginazione.

A sostenere e impreziosire l’apparato spettacolare di Guardiani della Galassia Vol. 2 è la scrittura certosina, è la cura dei dettagli, dei personaggi, di una significante messa in scena – ancora una sequenza, davvero illuminante: sulle note di Come A Little Bit Closer la letale freccia di Yondu trafigge decine e decine di Ravagers, in un lungo ed esasperato ralenti, con Yondu e Rocket liberi di sfogare la loro rabbia ma soprattutto l’incolmabile tristezza. Una sequenza dal retrogusto amaro, sorprendentemente introspettiva. Gunn lavora su più piani, intrecciandoli e rendendoli indivisibili: i suoi eroi colorati, esaltati dalla computer grafica e dalle ambientazioni extraterrestri, ballano sulle note degli anni Settanta/Ottanta, sparano a più non posso, ma portano dentro di loro un passato di sofferenza, di ferite profonde. Questa avventura li mette uno di fronte all’altro, a specchio, per rivelarne le più profonde paure e debolezze. Ma anche l’indomabile coraggio, sempre a cresta alta, musica nelle orecchie e via a spaccare tutto.
I know I have to go…

[Thank you, Quinlan!]

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