C’è un giudice a Tallinn. Ma, a differenza di quello berlinese, che secondo la leggenda, ristorò il torto inflitto da un nobile prussiano ad un povero mugnaio, questo al centro del film dell’estone Andres Puustusmaa non è incline a rendere giustizia ai più derelitti. Nega infatti un’ultima possibilità di difendersi a una donna imputata di omicidio, che sarà quindi condannata a quindici anni di reclusione e vedrà la figlioletta data in custodia ai servizi sociali. Il fratello di lei cerca di convincere il giudice (in lingua estone Kohtunik, così il titolo originale del film) a riaprire il caso, ma il tentativo degenera e il pover’uomo fa una brutta fine.

Il giudice, allora, sale su un traghetto diretto a Helsinki, attraversando il Golfo di Finlandia punteggiato di lastre di ghiaccio fluttuanti. Una volta sbarcato, inizia a vagare per la campagna ricoperta di neve – opportunamente filmata in bianco e nero – incontrando una moltitudine di personaggi da teatro dell’assurdo.

Il giudice si aggira tra questa umanità ora buffa, ora disperata, con la quale non comunica: taciturno, lo sguardo torvo, il nostro protagonista raccoglie le confidenze di sconosciuti e si lancia in imprese degne dei racconti dello scrittore finlandese Arvo Paasilinna.
Quando viene assunto in una fattoria per dare la biada ai cavalli, si mette alla guida di un trattore, entra in una sauna insieme ad un gruppo di donne mai viste prima e finisce in una bisca clandestina; una concatenazione di eventi che ne stravolgeranno l’identità, portandolo ad assumere quella della sua vittima e conducendolo ad una metamorfosi definitiva.

Non appare come un uomo di potere. Al contrario, è triste e solo, lacerato da un conflitto interiore che lo spinge, nel suo errare, ad un ciclico ritorno al suo ufficio giudiziario, che stavolta affronterà con maggior empatia verso gli altri esseri umani.

Com’è tipico della cinematografia e, in generale, dell’arte e letteratura scandinava, la narrazione delle vicende umane non è mai scissa da una profonda riflessione filosofica, anche se talvolta essa assume la cifra grottesca del cinema dei fratelli Kaurismäki. Così, del resto, lo stesso Puustusmaa, nelle sue note di regia, si riferisce esplicitamente al “sottotesto filosofico della storia” ovvero la convivenza quotidiana con le paure, i dubbi, le scelte che ciascuno è chiamato a compiere, in un perenne “dissidio esistenziale” con se stessi e con il resto del mondo.

Al di là delle teorie, comunque, qui siamo piuttosto dalle parti della cosmogonia kafkiana che sembra ben sposarsi con le latitudini baltiche, dove il surreale è di casa.

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