Il grande Ridley Scott, uno dei patriarchi del cinema mondiale, non ha nessuna intenzione di gettare la spugna. Dopo aver spaziato tra i generi cinematografici più disparati, superati gli ottant’anni ha deciso di portare sul grande schermo la biografia assolutamente non autorizzata scritta da Sara Gay Forden: il titolo originale, “The House of Gucci: A Sensational Story of Murder, Madness, Glamour, and Greed”, dice molto sulle tumultuose vicende che hanno caratterizzato la storia recente della Casa di moda Gucci.

E il film tiene senz’altro fede alle aspettative: oltre due ore e mezzo di ricostruzione storica e psicologica di una famiglia fuori del comune, più propriamente una dinastia, iniziata esattamente un secolo fa con il toscanissimo capostipite Guccio Gucci.

Alla sua morte, avvenuta nel 1953, sono i figli Rodolfo (Jeremy Irons) e Aldo (Al Pacino) a rilevare l’azienda di famiglia fino a farla diventare un brand di livello internazionale. I rispettivi rampolli, Maurizio e Paolo, sono molto diversi tra loro: il primo è un manager in pectore, in procinto di laurearsi in giurisprudenza, ben intenzionato a rafforzare le fondamenta dell’impresa e se possibile a farla crescere ancor di più. Il secondo è una scheggia impazzita, consapevole della sua mediocrità creativa ma ugualmente intenzionato a ritagliarsi uno spazio nel mondo Gucci.

Qui, nell’affidare i due personaggi a due attori diametralmente agli opposti come resa interpretativa, Ridley Scott dimostra cosa significhi disporre di un cast atomico. La prova di Adam Driver nei panni di Maurizio Gucci conferisce al personaggio tutte le sfumature del caso, da quella dell’equilibrato giovanotto di buona famiglia fino al rampante e spietato uomo d’affari, che tratta l’azienda e gli affetti con pari determinazione.

Lo spessore del protagonista maschile di Casa Gucci stride invece con quello del cugino Paolo, al quale la stupefacente interpretazione offerta da Jared Leto, stravolto nel fisico, irriconoscibile fin quasi alla macchietta, restituisce una dimensione da guitto o meglio da “matto del villaggio”: una mina vagante che avrà una parte non irrilevante nel cupio dissolvi della Famiglia.

E poi c’è Lei, la portentosa Lady Gaga, al secolo Stefani Joanne Angelina Germanotta, nei panni esplosivi di Patrizia Reggiani, colei che – ragazza di umili origini ma dalle idee molto chiare – seduce il rampollo più brillante e lo porta all’altare malgrado l’ostilità di papà Rodolfo, che temeva l’ingresso in famiglia di una personalità così rozza ma vitale e determinata.

Significativo il modo in cui la parvenu pratica scientemente la propria ascesa sociale, assumendo il nome della casata ed entrando a piedi uniti nelle scelte aziendali, orientando gli schieramenti azionari dopo essersi ingraziata il parimenti ruspante e self-made zio Aldo – un Al Pacino che magari gigioneggia un po’, memore dei trascorsi da Padrino, ma che da’ sostanza al contrasto tra le due anime della famiglia Gucci.

Il tutto consultando costantemente la cartomante Giuseppina Auriemma, una sapida ed efficacissima Salma Hayek in un ruolo minore ma non meno importante.

Tuttavia, la rovina dei singoli componenti non ha portato con sé la dissoluzione dell’impero stilistico ed economico rappresentato dalla “House of Gucci”: grazie all’astuto e apparentemente fedelissimo (ma a chi, poi?) factotum Domenico De Sole, la casa di moda viene lanciata nell’empireo del capitalismo globale perpetuando il successo planetario di un marchio che a buon diritto si è proposto come araldo dell’Italian way of life: gusto estetico, bella vita, e corruzione morale.

 

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