Ultimo parto, il più personale, di una carriera straordinaria, The Fabelmans è un abbraccio cinematografico allo spettatore, la riscoperta di una dimensione intima nel narrare dopo tante visioni immaginifiche e racconti epici. Una vicenda in cui Steven Spielberg intreccia in modo mirabile reale e meraviglioso, rivelando quanto il confine tra le due dimensioni sia in realtà labile.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022 nella sezione Grand Public, in collaborazione con Alice nella Città.
Cantami, o Steven
Film atteso e sospirato come pochi (anche per l’anteprima italiana annunciata in extremis alla Festa del Cinema di Roma 2022, con solo due, affollatissime, proiezioni) il nuovo lavoro di Steven Spielberg The Fabelmans si è infine offerto ai nostri occhi, preceduto dai lusinghieri giudizi sulla sua première a Toronto. E lo ha fatto, lo diciamo subito senza tema di smentita, rivelandosi come uno dei lavori più importanti della carriera del regista americano, probabilmente quello più sentito e personale, di certo uno dei suoi più emotivamente pregnanti. L’idea, da parte di Spielberg, di realizzare un film sulla sua infanzia e adolescenza viene da lontano: addirittura da fine anni ‘90, quando il regista annunciò un progetto che doveva intitolarsi I’ll Be Home ed essere scritto insieme a sua sorella Anne. L’idea, all’epoca, sarebbe stata accantonata in favore della scrittura e realizzazione del discusso (e da noi amato) A.I. – Intelligenza artificiale. Non è un caso, probabilmente, che oltre un ventennio dopo proprio The Fabelmans abbia segnato il ritorno di Spielberg alla regia di un copione da lui scritto (insieme al fidato collaboratore Tony Kushner) dopo aver portato in vita tante storie altrui: quello, evidentemente, era un racconto che premeva per essere raccontato, prima e al di sopra di ogni altro. Un racconto che probabilmente avrebbe atteso ancora (magari anche un altro ventennio) se le condizioni non fossero state quelle giuste; ma che aveva comunque l’urgenza di prendere vita, prima e al di sopra di qualsiasi altro progetto. Una vita che doveva esprimersi in quelle immagini in movimento, proiettate al buio, di cui esso stesso canta una struggente ode.
Realtà e meraviglia
È impossibile – ed è probabilmente anche un esercizio ozioso – dire quanto ci sia di reale o autobiografico nella narrazione di The Fabelmans, quanto di fittizio, e quanto di mescolato e/o confinante tra le due dimensioni. Quel che è certo è che il racconto della vita di Sammy Fabelman – ragazzino folgorato a sette anni dalla magia dello spettacolo cinematografico, e caparbiamente deciso a dedicarvi la vita – si configura come una delle narrazioni più straordinariamente reali, concrete e tridimensionali, e insieme tra le più poetiche e affabulatorie, che ci sia capitato di vedere sullo schermo negli ultimi anni. La magia del cinema, celebrata in ogni singolo fotogramma di questo film, sta in fondo proprio nell’unire reale e fittizio senza soluzione di continuità, rendendo lirico e meraviglioso il racconto della verità e, per contro, dando concretezza e credibilità all’elemento fantastico. Lo sa bene il Sammy interpretato magnificamente da Gabriel LaBelle (la somiglianza col regista, nei tratti somatici e nell’espressività, è evidente) quando dirige il suo primo western e fa il suo primo, rudimentale ma geniale lavoro di post-produzione – riproducendo il bagliore luminoso dei colpi di pistola attraverso semplici buchi sulla pellicola; e, poi, quando trasforma quello che doveva essere il resoconto di una semplice gita scolastica in spiaggia in un’opera a metà tra slapstick comedy ed epopea sportiva, dando statura umana e profondità proprio al bullo che lo tormentava. E facendo emergere, proprio nel detto bullo, un’umanità in precedenza neanche sospettata. Proprio in queste due sequenze è racchiuso probabilmente, in modo più compiuto, il potere del cinema di manipolare il reale, trasfigurarlo e/o liricizzarlo; quel potere di cui il film di Spielberg è intriso per tutte le sue densissime due ore e mezza di durata.
Due epifanie per un mondo
Abbiamo preso, come esempio di celebrazione/rivelazione del potere dell’arte cinematografica, due singole sequenze di The Fabelmans; ma la verità è che l’ode che il film di Spielberg fa alla sua “ossessione” si estende per tutta la sua durata, da quella prima folgorazione davanti a Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille – con l’immediata urgenza di ricreare quella stessa magia, di ricostruirne l’inquietudine, per racchiuderla in una sequenza di immagini e quindi farla propria – fino alla conclusione del film, segnata da un incontro rivelatore di cui ovviamente non sveliamo i dettagli. Due vere e proprie “epifanie” – quella dell’innamoramento con la decisione (inconsapevole) di seguire una strada, e quella finale della consapevolezza e presa di coscienza dei propri mezzi – a racchiudere un pezzo di vita e una lunghissima storia d’amore con la settima arte. Una storia d’amore che (come preannunciato dal pittoresco e irresistibile zio del futuro regista, interpretato da Judd Hirsch) avrebbe finito per sovrastare e cannibalizzare tutti gli altri affetti del giovane protagonista, compreso quello familiare; una divaricazione tra arte e famiglia, tra conseguimento caparbio ed “egoista” della propria vocazione, ed esigenza di stabilità ed equilibrio emotivo, che nella vita del giovane Sammy si sarebbe subito rivelata impossibile da comporre. Una divaricazione che avrebbe messo il ragazzo, in età adolescenziale e con l’esempio plastico della propria famiglia davanti agli occhi, di fronte alla sua prima importante scelta; perché, se è vero che i percorsi sono già tracciati – dall’inclinazione personale, dalla vocazione e da quello strano animale chiamato talento – è anche vero che sta al singolo, poi, scegliere di seguirli o meno. Un “libero arbitrio” (concetto centrale nella fede ebraica, appartenenza più volte rimarcata per la famiglia del protagonista) delle cui ricadute il protagonista è testimone, in particolare con l’irrisolta e tormentata figura della madre interpretata da Michelle Williams.
La vocazione che divora
Il cenno al personaggio della madre del protagonista ci porta a parlare dell’altro aspetto fondamentale di The Fabelmans, ovvero la sua anima da melò familiare; un melò intriso di toni da commedia – per larghi tratti irresistibili nell’ilarità che suscitano – che si rivela tuttavia capace di colpire duro il cuore e il cervello dello spettatore quando necessario. Il contrasto tra i due genitori di Sammy, interpretati con misura e raro equilibrio dalla già citata Williams e da Paul Dano, trascende la semplice opposizione tra la vocazione artistica, espressa dalla donna, e l’attitudine scientifica e produttivista, rivelata invece dal personaggio di Burt Fabelman; il contesto familiare dei Fabelman ci racconta piuttosto il contrasto tra un personaggio che ha seguito integralmente la sua vocazione scientifica (nello stesso modo entusiasta, visionario e naïf con cui se ne segue una artistica, con tutta la “cecità” umana e sociale che può conseguirne) e un altro profondamente irrisolto, che ha visto sfociare la sua irresolutezza in nevrosi, fino al punto di rottura. In questo senso, una lettura più profonda del soggetto ci porta ad avvicinare in realtà il giovane Sammy – “divorato” dal demone dell’arte come sua madre, e apparentemente lontano dal mondo di numeri, formule e algoritmi di suo padre informatico – proprio a Burt; una figura con cui il ragazzo condivide la determinazione ostinata e la disponibilità a mettersi in gioco, oltre all’entusiasmo ingenuo, contrapposti all’amarezza di una promessa tradita che vediamo a più riprese sul volto della donna. E non è un caso che sarà proprio Burt, infine, a incoraggiare e sostenere il percorso del giovane Sammy, cogliendo un’affinità di approccio alla vita che trascende le scelte fatte.
Volerne ancora
È denso, immersivo e straordinariamente pregnante, The Fabelmans, eppure al contempo piccolo e intimo, un racconto permeato dal calore di un abbraccio cinematografico che trascende le durezze narrate: il progetto di un cineasta che, avvicinandosi alla soglia degli ottant’anni – dopo una carriera fatta parimenti di visioni immaginifiche e narrazioni storiche di portata collettiva – si racconta allo spettatore dandogli del tu, un po’ narrando fedelmente pezzi di storia personale, un po’ barando e alterando consapevolmente gli eventi, un po’ mentendo e (ri)creando. Esattamente come fa suo zio Boris, in quel dialogo familiare che per la prima volta “aggancia” la fantasia del giovane Sammy. L’eccezionale fotografia di Janusz Kaminski non ricostruisce solo un’epoca – l’ottimistico periodo che va dalla metà degli anni ‘50 alla fine del decennio successivo – e un contesto sociale (la borghesia americana dell’epoca, che vive sulla sua pelle la difficoltà di conciliare il mito del self made man con l’equilibrio familiare e la lealtà personale); ma rende piuttosto un pezzo di vita di un gruppo di esseri umani, un nucleo familiare così immerso nel suo tempo eppure così capace di parlare all’esperienza di chi guarda, a prescindere da epoche e latitudini; un racconto ordinario liricizzato dal cinema, in cui reale e meraviglioso si intersecano e si compenetrano senza soluzione di continuità. Un racconto in cui ci scopre spessissimo a sorridere (e a volte a ridere di gusto) trovandosi al contempo il volto rigato da lacrime di commozione. Alla fine delle due ore e mezza di durata, praticamente inavvertibili e prive di momenti in cui la presa sullo spettatore si allenti, se ne vorrebbe di più; magari altrettante, fatte di un altro pezzo di vita, parimenti capace di unire realtà e favola, con la consapevolezza di quanto il confine tra le due dimensioni sia labile. Quante volte, obiettivamente, abbiamo potuto dire altrettanto di un film?
[Fonte: Asbury Movies]
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