Distribuito per pochi giorni al cinema, prima di approdare su Netflix il 9 dicembre, Pinocchio di Guillermo del Toro è una rilettura “infedele” quanto geniale della storia di Collodi; un adattamento capace di far vivere il nucleo narrativo del romanzo su un diverso substrato ideologico, con una straordinaria coerenza e un’inesausta capacità di affabulazione.
L’infedele meraviglia
Negli ultimi anni il personaggio di Pinocchio, icona sempiterna della letteratura per ragazzi e già origine di un gran numero di adattamenti (filmati e non) ha conosciuto un considerevole ritorno di popolarità, tra il grande e il piccolo schermo. Dal rispettoso ma personale adattamento di Matteo Garrone (col quale Roberto Benigni, col suo ruolo di Geppetto, si è fatto perdonare il mediocre film del 2002) si è passati al fallimentare live action di Robert Zemeckis di qualche mese fa, trasposizione (in)fedele del classico animato Disney del 1940; in mezzo, ci sono stati anche l’inedito film d’animazione russo Pinocchio: A True Story e la serie animata (dedicata espressamente ai più piccoli) Il villaggio incantato di Pinocchio, anch’essa datata 2022. Testimonianze della resistenza al tempo di una storia, quella scritta da Collodi nella seconda metà dell’800, che continua a parlare a più generazioni, probabilmente anche al di là delle originali intenzioni del suo autore; ed è proprio la duttilità della vicenda del burattino di legno, e la sua capacità di dar vita a interpretazioni – anche ideologiche – completamente diverse tra loro, la chiave di lettura forse migliore per approcciarsi a questo Pinocchio di Guillermo del Toro, annunciato adattamento in stop motion della storia originale. Un lavoro che Del Toro ha concepito, per sua stessa ammissione, rilevando un parallelo tra il romanzo di Collodi ed il Frankenstein di Mary Shelley, nell’analoga descrizione di due creature concepite da un “padre” che non ha fornito loro gli strumenti necessari per orientarsi nel mondo. Un parallelo che, già di suo, dice molto sulla lettura gotica di questa nuova trasposizione, probabilmente la più (genialmente) infedele tra quelle che si rifanno direttamente alla storia di Collodi.
Elogio dell’imperfezione
Non ci si fraintenda: Pinocchio di Guillermo del Toro (che il regista de La fiera delle illusioni – Nightmare Alley in realtà ha co-diretto con Mark Gustafson), nella sua infedeltà filologica porta dentro di sé molto dello spirito fiabesco – e anche dell’intrinseca crudeltà, comune a ogni fiaba – del romanzo originale di Collodi. È tuttavia l’impianto ideologico della storia – figlia del suo tempo e di un’etica borghese che, proprio in quel periodo, si conciliava alla perfezione coi tetri ammonimenti di una fiaba per bambini – a essere stato radicalmente modificato da questo adattamento, per molti versi persino sovvertito. Un segno, l’ennesimo, di come un testo viva e respiri – anche attraverso i secoli – al di là delle originarie intenzioni del suo autore, aprendosi a suggestioni e riletture tanto variegate quanto ugualmente valide; uno spettro di possibilità che, nel caso specifico di Pinocchio, va a impattare anche con l’ambivalenza insita da sempre nel genere fantastico, capace di essere, a seconda del modo in cui lo si maneggia, sia reazionario che sovversivo. Se il burattino di legno di Collodi, nello specifico, rappresentava il faticoso percorso di integrazione di un essere diverso in un contesto sociale omologato, con l’aspirazione alla soppressione della propria differenza tramite un percorso personale fatto di sacrifici e (dolorosa) accettazione delle regole, il personaggio di Del Toro segue un percorso opposto: l’imperfezione messa in scena in Pinocchio di Guillermo del Toro, come esplicitamente spiegato dalla voce narrante di Sebastian il Grillo, non è solo quella del burattino, ma è invece trasversale: coinvolge padri, figli, creature umane e non, persino lo stesso Grillo, qui quanto di più lontano da una genuina voce della coscienza. Un’imperfezione che la tecnica della stop-motion mette in scena nel migliore dei modi.
Il freak burattino
Lo stesso setting storico, spostato avanti di un cinquantennio in pieno fascismo pre-bellico, è funzionale a questa impostazione: una scelta che da una parte si rivela coerente con la lettura politica del genere spesso portata avanti da Del Toro (si pensi ai celebrati La spina del diavolo ed Il labirinto del fauno) dall’altra sottolinea con forza la natura di freak – e quindi, per definizione, di creatura avversa al potere e all’ordine costituito – dello stesso burattino di legno. Ma forse, più ancora del cambio di ambientazione, e di uno sviluppo della trama che ingloba direttamente (e in modo decisivo) la dimensione politica, è il background di Geppetto a segnare la differenza più sostanziale con la storia di Collodi: il falegname, qui, è un uomo distrutto dal dolore per la perdita (a causa della prima guerra mondiale) del figlio Carlo; un malinconico loser che, spinto dai fumi dell’alcol, intaglia il burattino nella speranza di farne un impossibile sostituto del ragazzo perduto. Quel “figlio” artificiale, la cui vita è stata infusa da una creatura che, più che una fata, somiglia a un misterioso spirito della foresta, provoca dapprima repulsione e rifiuto, nel falegname; la sua stessa, prima uscita nel mondo esterno, lo fa additare dai rispettabili cittadini del paese (e dai locali rappresentanti del potere, podestà e prete) come un abominio, frutto della peggiore stregoneria. Anche quando lo stesso falegname ne avrà accettato la presenza, questi non potrà fare a meno di metterlo a confronto col figlio perduto; un confronto che contiene in nuce un rifiuto, e che colpevolmente provocherà l’allontanamento del burattino e il suo viaggio. Un viaggio altrettanto doloroso di quello descritto da Collodi, ma mosso da basi molto diverse.
Fiabesco e credibile
Da quanto fin qui scritto, si potrebbe pensare che Pinocchio di Guillermo del Toro sia un adattamento tanto cupo e gotico del romanzo di Collodi da tagliar fuori dal suo pubblico, quasi automaticamente, gli estimatori della storia originale; oltre che da configurarsi come un prodotto ben poco adatto a un pubblico di famiglie. Niente di più lontano dal vero: anche in questa personale, liberissima e affascinante rilettura, la vicenda di Pinocchio mantiene inalterato il suo valore fiabesco, oltre a un intento “pedagogico” che, semplicemente, poggia le sue basi su una diversa concezione della società e dei rapporti tra gli individui; una fiaba che contiene in ugual misura ombra e luce, e che prefigura, per il suo protagonista, un viaggio di consapevolezza e crescita personale che può essere compreso e fatto proprio da un pubblico potenzialmente molto ampio. Oltre a ciò, i due registi danno al film una struttura da musical che (non è un paradosso) non disconosce la lezione dell’adattamento disneyiano dal 1940, inserendo le canzoni nei punti giusti ed evitando che soffochino la storia. L’approdo del viaggio di Pinocchio – e ci limitiamo a dire questo, per evitare qualsiasi spoiler – sarà tutto da scoprire, ma assolutamente coerente con le basi che hanno mosso la vicenda: un approdo nel segno dell’assunta consapevolezza di se per il protagonista, che problematizza e diluisce l’happy ending atteso, fornendo alla vicenda un’inedita carica di credibilità e realismo. Una carica che, insieme all’alto contenuto emotivo della storia, e all’artigianale, ipnotica meraviglia di cui è intrisa, fa di questo adattamento un’esperienza irrinunciabile, sia per gli estimatori del romanzo di Collodi che per quelli di un regista che, quando al suo meglio, resta uno dei migliori visionari del cinema degli ultimi decenni.
[Fonte: Asbury Movies]
[…] di animazione iniziato nel 2019 con Klaus, passando per Over the Moon e Wendel and Wild sino al Pinocchio di Guillermo Del […]
Concordo! 😉
Per me Pinocchio di Guglielmo del toro e’ meravigluoso