Candidato prima al Golden Globe, poi all’Oscar, Marcel the Shell rappresenta una scommessa vinta per l’esordiente Dean Fleischer Camp: quella, cioè, di mettere in scena una fiaba contemporanea col linguaggio del mockumentary, dando credibilità e forza emotiva a quella che poteva apparire come un’estemporanea stravaganza. Un risultato sicuramente prezioso.
Trainata dal Pinocchio di Guillermo del Toro, dai lavori della Laika Entertainment, e da altre opere meno fortunate presso il grande pubblico (ma non meno meritevoli) come il recente Wendell & Wild, l’animazione in stop motion sta vivendo in questi ultimi anni un momento particolarmente felice. È proprio questo generale clima di riscoperta di una tecnica che, nell’ultimo ventennio, era rimasta un po’ in ombra (in favore del montante successo del digitale) ad aver favorito il terreno per la creazione di un’opera come questo Marcel the Shell.
Un lavoro che, utilizzando la stop motion e fondendola senza soluzione di continuità con le riprese in live action, fa l’operazione più ardita immaginabile: un vero e proprio mockumentary fantastico, incentrato su una piccola conchiglia vivente che ha perso la sua famiglia. Un lavoro che, laddove va di moda – per i film incentrati sull’infanzia – parlare di opera “ad altezza bambino”, qui potremmo definire letteralmente “ad altezza conchiglia”. Ma la scommessa vinta dal regista esordiente Dean Fleischer Camp (già montatore e sceneggiatore di lunga data, che ha diretto il film sviluppando l’idea di un suo precedente corto) sta nel rendere credibile, e realmente toccante, un soggetto che potrebbe apparire ai più come una semplice stravaganza. Una “stravaganza” che ha già conquistato una candidatura ai Golden Globe e che ora andrà a giocarsi l’Oscar nella categoria dell’animazione.
Come già anticipato, al centro della trama di Marcel the Shell (il titolo originale aggiunge un esplicativo “with shoes on”) c’è la piccola conchiglia di nome Marcel, che vive insieme a sua nonna Connie in una casa un tempo abitata da una coppia, ora adibita a Airbnb. La conchiglia, che è stata accidentalmente separata dal resto della sua famiglia quando i proprietari hanno abbandonato lo stabile, fa amicizia col nuovo occupante della casa, il documentarista Dean (interpretato dallo stesso regista). L’uomo, affascinato dalla vita dell’esserino, dal suo ingegno e dalla sua curiosità per il mondo, inizia a riprendere le sue attività quotidiane e a mettere online i suoi filmati; le condivisioni, contro ogni previsione dei due, generano immediatamente un boom di visualizzazioni, e nel giro di poco Marcel diventa una star. Tuttavia, la piccola conchiglia è triste perché i suoi familiari non sono con lui a festeggiare; così, Dean decide di aiutarlo a ritrovarli. Ma, per Marcel, cercare la sua famiglia significherà esporsi ancora di più ai “riflettori”, e lasciare per sempre la sua comfort zone.
Conquista immediatamente, Marcel the Shell, fin dalla prima sequenza: una carrellata a seguire una palla da tennis che, come scopriamo poco dopo, il piccolo protagonista ha adibito a mezzo di trasporto. Sin dai primi minuti, lo spettatore assume l’ottica del personaggio di Dean – sempre più coinvolto nel suo lavoro di resa della vita della conchiglia – e di conseguenza quella dello stesso Marcel, star del film e star all’interno della trama: l’idea di base viene fatta accettare allo spettatore con una resa naturale e dal rigido taglio documentaristico della quotidianità del protagonista, di cui subito si apprezza l’ingegno e il riutilizzo creativo (e con nuove funzionalità) degli oggetti più comuni presenti in casa. La compenetrazione tra il linguaggio del documentario e il mood fiabesco della narrazione dà vita a un clima di singolare realismo magico, che immediatamente convince e conquista: si empatizza con la piccola conchiglia non solo per la tenerezza del suo design – comunque concepito in modo semplice quanto accattivante, e animato con la giusta fluidità – ma soprattutto perché ci si trova di fronte a un personaggio a tutto tondo: il legame con la nonna chiarisce fin da subito la centralità, nella trama, del tema familiare – che sarà poi esteso ai legami in generale e al concetto di comunità – mentre l’amicizia con Dean, sempre meno interessato alla sua attività professionale e più coinvolto personalmente dalla vicenda di Marcel, finirà per trasformare positivamente entrambi i personaggi.
Il film di Dean Fleischer Camp può essere considerato uno dei pochi esempi in cui l’estensione del concept di un cortometraggio ha generato un risultato felice, e totalmente compiuto. Mettendo in scena col linguaggio del mockumentary (in un modo che può sembrare provocatorio, ma in questo caso funzionale ad avvicinare lo spettatore) una vera fiaba contemporanea, il regista ricostruisce un coming of age che da un lato esalta l’importanza del concetto di comunità – estensione di quello di famiglia – e della costruzione di radici condivise, dall’altro mette in evidenza la forza dell’individualità, la capacità “creativa” di reazione personale alle difficoltà e la ricerca autonoma di una propria strada. In questo dualismo, c’è l’intimo carattere americano di un’opera come Marcel the Shell, nata in una cultura in cui individuo e comunità hanno rappresentato da sempre un insieme inscindibile.
E poi, nel film di Camp c’è lo sguardo sardonico sulla società mediatizzata dei social network, sul carattere effimero dei milioni di like e della notorietà conquistata su YouTube, generatrice di alienazione e ulteriore solitudine. Oltre a questi elementi, uno sguardo mai così empatico e realistico sul lutto, e sulla sua necessità come chiave di volta per la comprensione della propria stessa mortalità, e per uno sviluppo individuale pieno. In questo, l’accento sulla generazione più antica come custode delle radici da un lato, ed elemento di sprone per l’autonomia individuale dall’altro, ha qualcosa dei più riusciti classici targati Disney (depurati dagli eccessi di buonismo e dalla maniera intervenuta negli ultimi anni). Un insieme che, nella conclusione, si apre a una componente spirituale che ne è il naturale sbocco, e che sfuma intelligentemente l’happy ending con un ulteriore tocco di realismo e malinconia. Difficile chiedere di più.
[Fonte: Asbury Movies]
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