C’è un Re Mida nel cinema italiano: il suo nome è Pupi Avati, il quale da più di quarant’anni non trasforma in incassi cinematografici, in oro, quel che tocca ma accende attori provenienti da contesti anche molto diversi dal cinema drammatico o dalla commedia nostalgica, principali generi da lui praticati e li rende “d’oro”, scoprendo le autentiche attitudini interpretative nascoste in loro.

I suoi film, per questi attori anomali ed imprevisti, sono delle epifanie in cui si rivela una loro anima di attore e di essere umano che forse essi stessi non conoscevano fino in fondo di  sé. Il primo di questi attori resi grandi interpreti drammatici è stato, probabilmente, quell’eroico caratterista della commedia e della farsa degli anni ’50 e ’60, Carlo Delle Piane. Una gita scolastica è solo uno dei film in cui Delle Piane interpreta il ruolo di timido perdente in cui è perfetto e che sembra cucito su di lui.

Il caso più eclatante, invece, proprio quel Diego Abatantuono, probabilmente il più talentuoso delle “ri-scoperte” avatiane che dopo l’eroica epopea del box-office del suo “terrunciello” fu rilanciato in una chiave tragica nel bellissimo Regalo di Natale. Avati ha poi riplasmato, in questa chiave demiurgica, tanti altri attori “fuori contesto”, da Massimo Boldi a Nino D’Angelo, da Katia Ricciarelli a Serena Grandi, da Cesare Cremonini a Renato Pozzetto, solo per citarne alcuni.

La quattordicesima domenica del tempo ordinario non sfugge a questa regola avatiana e non ci si può nascondere che grande curiosità nella visione del film sia data dalla presenza della divina Edwige Fenech, interprete della protagonista femminile in età matura. La Fenech rivela grandi capacità nel rendere un ruolo di donna spenta, invecchiata, nella quale l’ancor rilucente bellezza riflette più che altro la blanda fiamma interiore del passato e della giovinezza.

Certamente questo è il ruolo della vita per l’attrice che trionfò per un decennio come regina della commedia sexy ed è un peccato che Avati non abbia utilizzato ancora più la profonda malinconia che l’attrice è riuscita a portare nel proprio personaggio.

L’ultimo film del maestro bolognese è una summa dei suoi temi classici ma rispetto alla nutrita filmografia precedente, l’opera è portatrice di una cupezza acida, plumbea, soffocante più che struggente, un film in cui il presente è oppresso ed imprigionato dal passato, con i protagonisti che sembrano figure arse e bruciate, le quali vivono nell’ultima memoria, nel raggio verde di una loro età dell’oro, in quella giovinezza in cui era tutto possibile, le cose più belle e quindi anche un’età in cui tutto poteva essere sbagliato, travisato, sprecato.

Esattamente il modo di agire dei due protagonisti, quello maschile, in età matura, interpretato da Gabriele Lavia e quella femminile, la succitata Edwige Fenech che, reincontrandosi dopo decenni, possono soltanto riconoscersi ma non ritrovarsi, condividendo i diversi ricordi di una grande storia d’amore che si è poi traasformata in un coacervo di dolore, rimpianto ed infine indifferenza.

Il film non lascia speranza; ciò che rimane vive in una dimensione allucinatoria, onirica, quasi lisergica, quindi non reale.

La quattordicesima domenica del tempo ordinario sembra quasi un horror dell’anima e questa è la migliore sorpresa, seppur angosciosa che Avati ci regala nel suo film, del quale si è parlato come di un cine-testamento ma forse lo sarà soltanto per i temi classici della poetica del maestro, temi che ormai sono giunti ad agonia e che qui vengono sviscerati, proprio come in un’autopsia.

Forse, il prossimo film di Pupi Avati sarà qualcosa di completamente diverso e ci piacerebbe assai, un’opera ambientata nel futuro ed in cui sarà presente ancora la nostalgia ma per ciò che non si è ancora è vissuto.

 

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