Presentato alla selezione ufficiale dell’ultimo Festival di Cannes, The Apprentice. Alle origini di Trump è il primo film “americano” del regista iraniano Ali Abbasi, trasferitosi da anni a Copenaghen (ha preso anche la cittadinanza danese).

Dal 17 Ottobre nelle sale italiane grazie a BIM Distribuzione, il film è uno sferzante e dinamico ritratto di un “insolito apprendista”.

Ironicamente, il claim del film è: “Tutto quello che avreste voluto sapere su Trump e non avete mai osato chiedere”.

Il maestro del cinema iraniano, noto per Holy Spider (durissima denuncia della violenza nel regime degli Āyatollāh) ci presenta, infatti, un ritratto al vetriolo del magnate statunitense – interpretato da un efficace Sebastian Stan – al quale non fa sconti di alcun tipo.

Tant’è che l’entourage di Donald Trump sembra aver rilasciato dichiarazioni di fuoco, del tipo: “Questo ‘film’ è pura diffamazione e non dovrebbe essere proiettato!”

Sono scesi in campo perfino i responsabili della campagna elettorale dell’imprenditore-politico per minacciare cause legali contro la produzione di The Apprentice, accusato di essere una pura fiction basata sul sensazionalismo e su “calunnie già smascherate da molto tempo”.

Ironia della sorte, pare che alcuni sostenitori di Trump abbiano finanziato il making of del film, credendo si trattasse di un omaggio all’imprenditore!

Ad ogni modo, il film è straordinariamente efficace nel mostrare la non resistibile ascesa di Trump al potere, economico prima e politico poi, anche se la sceneggiatura di Gabriel Sherman – firma di Variety – si ferma molto prima, per l’appunto alle origini del sogno (o incubo!) trumpiano.

Ne è prova la scena dell’intervista in cui il giovane Donald, alla domanda su cosa farebbe se all’improvviso perdesse tutto, risponde facendo lo sbruffone: “Mah, non so, il Presidente!”.

The Apprentice_Jeremy Strong e Sebastian Stan
Jeremy Strong e Sebastian Stan

Ali Abbasi tratteggia in poche sequenze lo scenario in cui il potere del Denaro nasce, si sviluppa ed alla fine afferma la propria egemonia: Trump è il rampollo, non particolarmente intelligente ma sufficientemente ambizioso, di una ricca famiglia newyorkese appartenente al business immobiliare, all’interno del quale il giovane Donnie inizierà a farsi le ossa, riscuotendo door-to-door gli affitti di un condominio sgangherato in un quartiere popolare della Grande Mela.

Al tempo stesso, il giovane si intrufola nei club più esclusivi della Manhattan che conta, dove viene preso sotto l’ala protettiva dell’avvocato Roy Cohn – interpretato in maniera eccellente da Jeremy Strong -, un ambiguo individuo che, con luciferina astuzia, guiderà l’aspirante miliardario nella sua ascesa verso il successo. A scapito di qualunque principio etico.

Del resto, Cohn aveva a sua volta iniziato la sua sfolgorante carriera contribuendo, come accusatore, alla condanna a morte dei coniugi Rosenberg, durante l’infame periodo del Maccartismo.

Cohn è virtualmente un assassino; lo è nell’anima.

La sua arma letale è il Diritto, anzi neanche quello: è la totale assenza di scrupoli, la spregiudicatezza più assoluta, la ferocia con cui attua la prima delle regole auree che lui stesso si è dato: Attacca, attacca, attacca, per ottenere il successo personale o la rovina dei propri avversari; a qualunque costo.

Il giovane Trump si affida ciecamente ai suoi consigli, scalando società ed assetti proprietari, fino a realizzare il sogno di costruire un lussuoso palazzo che porta il suo nome, la Trump Tower.

Ali Abbasi ha dichiarato: “Non penso sia un film che non piacerà a Trump… penso che ne sarà sorpreso”.

Forse perché, malgrado tutto, The Apprentice riesce a presentare i lati umani del tycoon: si veda la scena in cui, invitato al tavolo dell’avvocato Cohn, ordina acqua e ghiaccio mentre il suo ospite si spara uno “shottino” di Vodka dietro l’altro, o quella in cui una delle tante prede sessuali di Trump si sta dedicando ad una fellatio ma lui la interrompe perché ha la testa sugli impegni di lavoro che costellano la sua irrefrenabile scalata.

Il tutto, beninteso, nel dichiarato interesse degli Stati Uniti.

Il fatidico slogan Make America great again è infatti qui anticipato dal close-up sull’occhio di Trump nel quale è riflessa la bandiera a stelle e strisce.

Il problema è capire di quali americani il magnate faccia realmente gli interessi.

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