Il seme del fico sacro di Mohammed Rasoulof_Al cinema dal 20 Febbraio

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Rasoulof a Cannes con il cast

Donne, Vita e Libertà: combattere il sistema con la ragione ed il coraggio.

Il seme del fico sacro (The Seed of the Sacred Fig), scritto e diretto da Mohammed Rasoulof è giunto nelle sale italiane il 20 Febbraio, grazie a Lucky Red e Bim Distribuzione.

Presentato a Cannes 77, ove ha vinto il meritatissimo Premio Speciale della Giuria, il lungometraggio è candidato agli Oscar 2025 come Miglior Film Internazionale; possiamo finalmente ammirare in sala il risultato dell’ispirazione che il regista ha tratto dal coraggio dimostrato dalle donne iraniane del movimento Donne, Vita e Libertà.

Fuggito clandestinamente dall’Iran, infatti, Rasoulof ha subito la prigionia con Jafar Panahi a causa della sua arte e delle sue idee progressiste e con questo suo ultimo lungometraggio, il regista ci racconta in parallelo la storia di una famiglia e di un Paese.

Il seme del fico sacro ha come protagonisti un neo-giudice istruttore della Rivoluzione, Iman (Missagh Zareh), che inizia a capire presto quali compromessi gli vengono chiesti per mantenere la tanto agognata promozione (come ad esempio giudicare un uomo senza neppure aver letto gli atti processuali).

La famiglia di Iman è composta da: la moglie casalinga devota Najmeh (Soheila Golestani) ma meno rigida del marito (che già sogna una casa più grande dove vivere) e le loro due figlie che rappresentano l’apertura al mondo, la libertà, l’intelligenza e la ragione contro l’oscurantismo: Rezvan (Mahsa Rostami) di 21 anni e l’adolescente Sana (Setareh Maleki), 16 anni, che frequentano l’Università e la scuola e seguono il Movimento e le proteste da casa e dai loro cellulari, oltre che tramite un’amica che viene coinvolta in uno scontro.

Mentre Iman è alle prese con il peso psicologico del suo nuovo ruolo e le sue figlie sono scioccate dagli eventi, la moglie Najmeh cerca di fare del suo meglio per tenere insieme la famiglia: quando Iman scopre che la sua pistola d’ordinanza (altra metafora del potere) è sparita, il sospetto cade su ogni familiare.

Spaventato dal rischio di rovinare la propria reputazione e perdere il lavoro, il pater familias diventa sempre più paranoico ed inizia un’indagine in casa propria che lo porterà ad oltrepassare qualsiasi limite, uno dopo l’altro, fino ad un viaggio da incubo e ad un tragico, inevitabile, epilogo che aprirà però, nell’intenzione del regista, alla speranza di un futuro migliore.

Le vere protagoniste di questa straordinaria opera cinematografica sono le giovani donne, ragazze, studentesse che non cessano di manifestare dopo l’omicidio della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale per aver indossato l’hijab “in maniera impropria”: la sua morte, con ogni probabilità causata da percosse e maltrattamenti, è stata derubricata come ‘malore’ o ‘attacco di un cuore debole’.

Il film mostra la protesta degli studenti contro il repressivo regime iraniano, la manipolazione delle informazioni e le difficoltà delle relazioni intergenerazionali, attraverso la storia di una famiglia borghese di Teheran e mediante i filmati girati di nascosto – nella vita reale – dalle persone, lungo le strade, con i cellulari: sono soprattutto le giovani generazioni, infatti, a tracciare la via della libertà ed a raccontare al mondo, con le immagini riprese dai telefonini, la resistenza contro una polizia cieca e violenta – nonostante le proteste pacifiche – e ad evidenziare l’assurdità anacronistica di un regime che cerca, ancora oggi, di mettere a tacere, controllare e reprimere la libertà del suo popolo.

Il premio ricevuto a Cannes è il giusto riconoscimento, oltre che ad un’opera di grande valore artistico e culturale, anche alla rocambolesca avventura vissuta da Rasoulof, fuggito clandestinamente dal suo Paese e giunto fortunosamente alla Croisette, proprio dove l’anno precedente, invitato a far parte della Giuria del Concorso, non aveva potuto partecipare per il divieto di lasciare la nazione: “Quando stavo attraversando il confine, mi sono girato – racconta il regista – ho dato un’ultima occhiata alla mia terra natale e ho pensato ‘ci tornerò’. Penso che tutti gli iraniani che sono dovuti partire a causa del regime totalitario tengano una valigia pronta a casa, nella speranza che le cose migliorino.”.

Il suggestivo e bellissimo titolo dell’opera si riferisce ad una particolare pianta di fico ed il regista, nell’incipit del film, spiega suo modo, in sovrimpressione, la ragione per cui l’ha scelto: “In alcune isole meridionali dell’Iran ci sono dei vecchi alberi di fichi sacri, il cui ciclo di vita ha attirato la mia attenzione: i loro semi cadono sui rami di altri alberi. Quei semi germogliano e le loro radici si muovono verso il terreno: quando le radici raggiungono il terreno, il fico sacro si regge sulle proprie gambe e i suoi rami strangolano l’albero ospite.”.

Una metafora chiarissima, legata alla situazione politica del suo Paese ed alla speranza che ciò che è sacro abbia la meglio, nonostante tutto.

È cosa tristemente nota infatti che il regime iraniano imponga la censura al cinema, fino ad arrestare i registi scomodi e ‘disobbedienti’, basti pensare a Jafar Panahi, tanto per citare uno dei più famosi, che insieme a Rasoulof è stato in carcere per lunghi periodi e delle cui disavventure sono piene le cronache.

La creatività e la vitalità dei cineasti iraniani, non si è mai, fortunatamente per noi tutti, fermata davanti ai divieti, alla repressione ed alla minaccia del carcere: molti film sono stati infatti girati e diffusi utilizzando abili espedienti narrativi, rendendo la vita reale di cineasti, attrici e attori parte integrante della trama stessa. Copie delle opere dello stesso Rasoulof, An Integrity Man (2017), The Manuscripts Don’t Burn (2013) e Au Revoir (2011) erano state, ad esempio, inviate clandestinamente al Festival di Cannes per essere proiettate nella selezione ufficiale.

Data la situazione politica del proprio paese, Rasoulof non poteva che costruire un film dal clima paranoico e claustrofobico che. dopo una prima parte quasi teatrale. volge in direzione del thriller. Le mura domestiche, entro le quali si svolge la maggior parte del film, sono un luogo sicuro ed una prigione al tempo stesso: non basterà reprimere gli oppositori o presunti tali per fermare le masse di giovani e di persone di ogni età che vogliono cambiare le cose. Il mondo fuori dalle mura della tradizione e dell’ipocrisia spinge e non è possibile restare asetticamente distaccati, pena la connivenza col regime e/o l’isolamento dal mondo.

“Le giovani donne del mio paese del movimento Donne Vita Libertà – ha affermato il regista – mi hanno ispirato con il loro grande coraggio di lottare. Il mio popolo è ostaggio del regime, una situazione di sofferenza che si vive quotidianamente, gli attori del mio film sono stati trattenuti in Iran con la pressione dei servizi segreti della Repubblica Islamica e sono profondamente triste.

Questo film è un miracolo ma in Iran accadono cose terribili agli artisti, agli studenti universitari, ai giovani, come la condanna a morte di Toomaj Salehi per la sua attività artistica di rapper.”

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