Le-ba-non Kam-jeong_locandinaProsegue fra picchi e abissi la sezione principale del Festival Cinematografico Internazionale di Mosca, arrivato oggi a metà del suo percorso fra racconti allegorici, scontri generazionali e spaccati suburbani.
Dopo il clima relativamente conciliante e garbato dello scorso pomeriggio, nella programmazione irrompe improvvisa e generosa la violenza, il sangue si fa presenza tangibile e la leggerezza da feel good movie si fa momentaneamente da parte: il coreano Le-ba-non Kam-jeong è una cruenta parabola di espiazione e di disperazione intrisa di simbologie cristiane e di elementi autobiografici (la dedica finale, posta in grande evidenza, alla madre del regista, da poco scomparsa), dove l’uso preponderante dell’ellissi permette svariate possibilità di interpretazione, rincarate dalla scelta di un titolo totalmente slegato dall’opera in sé e che cita, solo idealmente, i versi di una misconosciuta poetessa locale.

Tutti i personaggi, fra cui un giovane sconvolto da un suicidio in famiglia del quale si ritiene misteriosamente responsabile e un’autostoppista appena uscita dal carcere, non hanno nome e rimangono coinvolti in una taciturna, cruenta “pericolosa partita” che arriva ad assumere valenze cosmiche e profondamente metaforiche (il tema più ricorrente è proprio quello della caccia, all’uomo e non), marionette nelle mani di un inquietante personificazione del Male che riporta al Chigurh di Non è un paese per vecchi e vittime di un paesaggio inospitale fra onnipresenti cantieri, letali trappole per la selvaggina e colline innevate.

Il film vuole forse presentarsi ben più misterioso di quanto non sia in effetti (è l’unico partecipante al concorso senza sinossi sul sito ufficiale e con appena tre brevi, generici periodi sul catalogo ufficiale) e la prospettiva sulla Corea contemporanea viene stemperato dal suo carattere fin troppo “personale” e privatamente lenitivo, ma se l’esordiente Jung Young-heun saprà progressivamente liberarsi dei fantasmi che lo assillano, forse Seoul potrà davvero avere un nuovo nome su cui puntare.

Ad appena due anni dall’edizione che lo vide vincitore con Las olas, ritorna a Mosca lo spagnolo Alberto Morais con il piccolo Los chicos del puerto, ma sconta in misura decisamente maggiore i medesimi difetti della pellicola precedente: la piccolissima e silenziosa storia delle peregrinazioni di un ragazzino incaricato dal nonno sulla via dell’Alzheimer di lasciare un cappotto sulla tomba di un commilitone appena seppellito si rifà evidentemente alla poetica primaria e minimalista del primo Kiarostami, nella fattispecie del suo celebre Dov’è la casa del mio amico?. Con il primo capolavoro del cineasta di Teheran i punti in comune si rivelano molteplici, dal plot interamente incentrato su una lunga, laconica ricerca con tutti gli insignificanti imprevisti della situazione all’età e all’estrazione sociale dei suoi piccoli protagonisti, dalla breve, concisa durata a una serie di ostacoli rappresentati principalmente dalla diffidenza degli adulti e dall’inospitalità dell’ambiente circostante, ma l’occhio ancora inesperto di Morais manca della capacità sintetica, dell’urgenza espressiva e della prospettiva sul Paese del suo modello di riferimento, e le sue eventuali chiavi di lettura aggiuntive – è stata tirata in ballo in conferenza stampa persino la Guerra Civile Spagnola – restano così abbozzate e allusive da rivelarsi alla fine più pretestuose che altro. La Valencia portuale di oggi e la sua periferia deserta, per quanto si possa lavorare di fantasia, non è non sarà mai il Medio Oriente degli anni ottanta, e così tutte le possibili buone intenzioni vengono vanificate da un’impostazione pigra e dalla simbologia fin troppo debole (il cinema all’aperto abbandonato, la fuga notturna dal paesaggio avvenierista della Città dell’Arte e della Scienza, il tentativo di furto al supermercato, e via discorrendo).

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Nella vetrina non competitiva dedicata all’arte documentaria internazionale, spicca la presenza del candidato all’Oscar The Gatekeepers, inquietante, avvincente e controversa serie di interviste rilasciate da sei capi dello Shin Bet, agenzia d’intelligence dello stato di Israele non inferiore per importanza al più noto Mossad, che aiutano a fare luce, nell’arco di sette episodi, sui momenti più problematici, discussi e misteriosi della condotta politica di Tel Aviv dalla Guerra dei Sei Giorni ad oggi. L’esplicita pietra di paragone è in questo caso l’illustre antecedente The Fog of War di Errol Morris, che affidò alle testimonianze dell’ex-Segretario della Difesa statunitense Robert McNamara il compito di svelare i retroscena degli avvenimenti bellici delle amministrazioni Kennedy e Johnson, ma l’inchiesta dell’emergente Dror Moreh basa il suo stile – forse un po’ tanto – non tanto sugli immancabili, preziosissimi filmati di repertorio, quanto su un sofisticato metodo di ricostruzione vagamente che trasforma i documenti e i filmati d’epoca in installazioni dal gusto quasi hi-tech.

Ne esce  un ritratto tetro, austero e inusitatamente poco accomodante dei vertici spionistici e dei loro metodi, che i sei direttori della potente organizzazione analizzano con uno sconcertante, anche se fin troppo auto-assolutorio senno di poi (“quando vai in pensione, finisci per sentirti un po’ più liberale di prima”, afferma bonario Yaakov Peri), che fa leva ancora una volta, come tanta produzione americana recente (da Lincoln a Zero Dark Thirty, passando per Argo), sul vecchio adagio secondo cui “il fine giustifica i mezzi”, descrivendo il terrorismo come una piaga contro la quale anche le più basilari nozioni morali possono (o devono?) essere messe da parte. Proprio l’ambiguità di fondo e il suo tono apparentemente contraddittorio sono però il più intrigante punto di forza di un progetto tanto arrischiato quanto chirurgico nella sua analisi, di certo non l’ideale, imparziale punto di partenza per comprendere la questione israeliana, ma un punto di vista di enorme interesse che quasi si distacca dalla realtà della cronaca per assurgere ad un livello e ad un’esegesi che sfociano nella metafisica.

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