Ci voleva Uberto Pasolini, italiano di nascita ma ormai da tempo trapiantato in Inghilterra, meglio noto come produttore (Full Monty) e già autore del poco conosciuto ma apprezzato Machan, per affidare finalmente un ruolo da protagonista a Eddie Marsan.
In assoluto il miglior caratterista inglese su piazza, forte di una lunga e prolifica carriera lavorativa (ve lo ricordate in Gangs of New York di Martin Scorsese, nella lotta tra il macellaio Daniel Day Lewis e Leonardo DiCaprio? O nei panni del reverendo John in 21 Grammi di Iñárritu?) anche se sempre in ruoli secondari, l’attore londinese recita in Still Life quasi sempre da solo, portando sulle proprie spalle il peso di una storia tutt’altro che comune.
Vediamo per la prima volta il suo personaggio, lo strambo John May, mentre assiste da solo a vari funerali, tutti celebrati con riti diversi. Un cognome che fa venire in mente la primavera, anche se a vederlo John sembra più una creatura da autunno inoltrato: un uomo riservato e apparentemente di corte vedute. Impiegato comunale, conduce una vita tranquilla e solitaria. Nulla di eccezionale, se non per un lavoro quantomeno insolito: contattare i parenti più prossimi di coloro che sono morti in completa solitudine, e nel caso non si trovi nessuno, presenziare al loro funerale.
Nel suo impegno di dare dignità in morte a coloro che l’hanno persa in vita, il signor May scrive di proprio pugno e con grande sensibilità gli elogi funebri e sceglie accuratamente la musica di accompagnamento per l’estremo saluto dei suoi ormai inconsapevoli clienti. Tanta dedizione ai morti non è gradita però al suo superiore, che lo licenzia di punto in bianco perché troppo lento e costoso nello svolgere il suo lavoro. Tutto ciò che rimane a John adesso è un ultimo caso da portare avanti, quello di Billy Stoke, un alcolizzato morto proprio nella palazzina di fronte alla sua. Il disordine della vita del defunto finirà così per creare una rottura nell’esistenza di John, fatta di abitudini e routine, tanto da convincerlo a partire alla ricerca di amici e parenti dell’uomo.
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Reduce dai successi veneziani (Pasolini, che non è imparentato con lo scrittore bensì è nipote di Luchino Visconti, è stato premiato come Miglior Regista nella sezione Orizzonti ma il il film si è aggiudicato anche il premio Pasinetti, assegnato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani), Still Life arriva nelle sale in un periodo dell’anno in cui tra hobbit e draghi, cartoon e commediole italiane, non sarà facile attirare l’attenzione del pubblico. Con uno stile che ricorda molto da vicino gli autori del nord Europa e con le inquadrature sature di onestà e rigore formale, Still Life è un piccolo gioiello che questa attenzione però la merita, perché in grado di raccontare con disarmante nitidezza e semplicità il momento del trapasso di tanti “signor nessuno”. Gli unici rapporti umani che John May ha, infatti li stabilisce proprio con i suoi cari estinti, dei quali conserva con cura le foto. Con loro sa di poter condividere un destino di solitudine, quello stesso destino che probabilmente è dietro l’angolo ad attendere anche lui.
Temi eterni quali la vita e la morte si incontrano con altri più attuali come l’isolamento nella società occidentale e la crisi economica, accompagnando lo spettatore in un viaggio in cui la desolante mediocrità umana viene vista attraverso gli occhi di May, un omino che sembra appena uscito dalle pagine del Cappotto gogoliano. E Pasolini sceglie di raccontare la sua storia con un approccio meticoloso, preciso e controllato proprio come era il suo protagonista prima dell’incontro che gli cambierà la vita. E prima di abbandonare l’universo fisico per quello metafisico. Perché poi la vita di John May, diventa poesia.
[Thanks, Movielicious! – L’immagine a chiusura di post è di Eugenio Boiano]
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