Un uomo (Robert Redford) sta solcando le acque dell’Oceano Indiano. È solo a bordo del suo yacht da dodici metri, il Virginia Jean il cui scafo, in seguito alla collisione con un container pieno di scarpette per bambini, subisce un grave danno. Privato della radio e della sua apparecchiatura di navigazione da una violenta tempesta, l’uomo, nonostante le riparazioni, la sua esperienza di ingegneria navale e l’energia profusa, sopravvive a stento. Con un semplice sestante e alcuni grafici per stabilire la sua posizione, sfiderà con ogni mezzo a disposizione le forze della natura.
Non ha un nome, né un passato il navigatore solitario interpretato da Robert Redford. A giudicare dai suoi abiti, dall’aspetto curato e dal modo in cui è arredata la sua barca, possiamo intuire che si tratti di un uomo sulla settantina, benestante, indipendente e amante dell’avventura. Forse ha un amore (il nome della sua barca), o forse sta fuggendo da un’intricata situazione familiare. Oppure ha mollato tutto e sta facendo quello che sogna e aspetta da una vita: un viaggio in solitaria. Non lo sapremo mai, perché l’unica cosa che conosciamo dell’uomo misterioso è il suo desiderio di sopravvivere, un desiderio forte e disperatissimo. E Redford, dall’alto dei suoi 77 anni, riesce a rendere credibile e indimenticabile un personaggio ostico e senza compromessi.
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Basandosi su una sceneggiatura priva di dialoghi e lunga solo trentadue pagine, J. C. Chandor dirige il suo secondo film (dopo il sottovalutato Margin Call, in cui veniva splendidamente descritto il big crash planetario innescato il 15 settembre 2008 dal fallimento di Lehman Brothers) in modo integro e austero, focalizzandosi sulle situazioni vissute dall’unico protagonista e concentrandosi sui suoi gesti. Redford è sempre intento a fare qualcosa, il suo è un personaggio pragmatico, che non cerca o si aspetta in nessun modo un aiuto divino, come accadeva ad esempio in Vita di Pi di Ang Lee, ma è perfettamente consapevole di essere da solo in mezzo all’oceano e nei guai.
Curioso come il quarantenne Chandor sia riuscito a realizzare due pellicole tanto diverse tra loro quanto speculari. E’ come se in un attimo Wall Street, il mostro che tutto fagocita, venisse trasfigurato a tal punto da diventare l’infinita distesa d’acqua in cui Redford cerca di rimanere vivo con ogni mezzo. Se in Margin Call, frenetico e parlatissimo, erano gli spazi angusti degli uffici di Wall Street a rendere tangibile la tensione, ora a farlo ci pensano le sconfinate acque in cui naviga lo sfortunato signor nessuno. Tanto lì i numerosi protagonisti si trovavano ad essere vittime delle proprie azioni, all’interno di un sistema marcio in cui a regnare incontrastati erano i dettami dell’economia e della politica, tanto qui l’integerrimo yachtman solitario è la preda di un evento casuale e non imputabile.
Nel vedere Redford che combatte contro le avversità della natura si fa fatica a non pensare al Capitano Achab, arpione alla mano, pronto ad infilzare la balena bianca, o al pescatore Santiago, ossessionato dal gigantesco marlin. Ma per il navigatore solitario di Chandor l’unica idea fissa è quella di restare vivo. Ed è qui che si percepisce la forza poetica del film: il desiderio di andare avanti nonostante tutto, nonostante la stanchezza e la solitudine e decidere di abbracciare con ogni mezzo l’istinto di rimanere, ancora, vivi.
Scommessa vinta, e alla grande, soprattutto perché All is Lost, presentato Fuori Concorso al 66° Festival di Cannes, fa parte di quella cerchia di film atipici e difficilmente collocabili sul mercato. Un cinema a cui non siamo più abituati che rinuncia a romanzare quello che ha da dire, omaggiando una realtà nuda e cruda e mettendo da parte i facili sensazionalismi. A conferma del fatto che ci troviamo davanti a una pellicola sorprendentemente fuori dal comune: l’unica nomination all’Oscar ricevuta dal film è stata quella per il Miglior Montaggio Sonoro.
[Thanks, Movielicious!]
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